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Spezzatino ad Atene

Creato il 06 novembre 2012 da Dallenebbiemantovane

Mi aveva infastidita, nell’ottimo Bella addormentata, la Huppert che recita metà in italiano metà in francese, ma interpretava una famosa attrice teatrale e quindi i suoi monologhi potevano ancora essere in parte giustificati dal personaggio. E io adoro Isabelle Huppert, che è tutto dire.

Di solito quando si vuole (o ci impongono) un attore straniero in un film, e sapendo che il suddetto non potrà non far sentire il suo accento originale, gli si fa interpretare un personaggio che, dopo mezzora, spiegherà ai coprotagonisti di essere appena emigrato dalla Spagna o dalla Norvegia: Banderas, poraccio!, da quando ha sposato la Griffith è abbonato a questo genere di ruoli.

Pensiamo a Bruno Ganz, che in Pane e tulipani fa addirittura l’islandese che sa a memoria l’Orlando Furioso, eppure ci è piaciuto così tanto!

Insomma, non è detto che queste scelte di cast stonino sempre.

Di sicuro stonano, e molto, in Appartamento ad Atene (dell'esordiente Ruggero Di Paola, Italia-Germania 2011), dove nell’ordine abbiamo:

- il tedesco Richard Sammel, tradotto in italiano;

- il greco Gerasimos Skiadaressis, non tradotto, che parla in italiano ma con pesante accento greco;

- l’italiana Laura Morante, che parla in italiano con accento umbro;

- i due bambini (esordienti e bravi) Vincenzo Crea e Alba De Torrebruna, che parlano in italiano con accento romanesco.

Ora: siccome il film è tratto da un romanzo del 1945 dell’americano Glenway Wescott (chissà perché, tradotto in italiano solo di recente), e parla di una famiglia ateniese che si ritrova costretta a ospitare un ufficiale nazista, è evidente come purtroppo queste scelte suicide inficino in modo irreversibile la credibilità della storia e l’immedesimazione dello spettatore.

Se tu, regista o produttore, decidi (legittimamente) di far recitare la madre e i suoi figli a tre attori italiani dalla cadenza regionale, allora potevi benissimo avere la coerenza di fare la stessa scelta di cast con l’ufficiale tedesco e il padre greco. Tutti italiani, e via.

Tanto il film è stato girato in Puglia!

Invece no, mi dai un pot-pourri linguistico che distrugge qualsiasi possibile sospensione della credulità. E di fronte a uno spreco di risorse umane del genere, non posso che rimanere allibita. Perché la storia, di per sé, sarebbe intensa, drammatica e coinvolgente quanto basta.

Invece, per carità, recitano tutti abbastanza bene, ma non ci permettono mai di dimenticare di essere rispettivamente l’attrice umbra che ha recitato con Nanni Moretti etc., due espressivi bambini romani e un buon attore greco assunto per recitare in italiano in una produzione italo-tedesca.

Discreti ma spesso retorici i dialoghi; come già sottolineato dalla critica, la predominanza di scene in interno ne fa un dramma da camera, al limite della pièce teatrale, salvo darci una boccata d’ossigeno ogni tanto con intermezzi nei vicoli e per le strade di un’Atene ricostruita a Gravina di Puglia (molto bella, a mio parere, la scena della visita alla tomba in cima a una collina pietrosa).

A parte ciò, abbiamo il già visto conflitto occupati-occupanti, con i vinti divisi tra coloro che obbediscono e coloro che non si piegano; e il vincitore che lentamente, sotto i colpi della guerra, perde in crudeltà e acquista in umanità, nonostante il tragico finale.

Non ci vengono risparmiati né Sofocle né Nietzsche né l’amore teutonico per la musica classica (d’altronde la cultura tedesca, specie quella nietzscheana e quella wagneriana, di tragedia greca è imbevuta, quindi ben venga la contrapposizione tra le due ideologie), la visione dell’amante tedesco della guerra e quella del greco pacifista, infine accomunati dai lutti familiari.

Tematicamente, nulla di nuovo rispetto al Silenzio del mare di Vercors (i francesi che oppongono all’occupazione il rifiuto di parlare ai nazisti occupanti) o a tanti film con il tedesco cattivo redento da spiragli di umanità (Schindler’s List, Il pianista, La caduta, Il bambino con il pigiama a righe, The reader).

Insomma, un film abbastanza inutile, o tardivo nella mole di cinematografia sulla seconda guerra mondiale, e sul nazismo in particolare, che già ci ha fatto vedere sotto tutte le angolazioni il rapporto fra guerra, Shoah e senso di umanità. 

 

Mi si ribatterà - è questa l'idea di fondo della recensione di Movieplayer - che la pellicola è innovativa proprio nel suo focalizzare l'esperienza psicologica della guerra sul microcosmo di un'unica famiglia e di un'unica casa, ma anche qui mi sembra che i tanti spunti psicologici si perdano via via: la figlia fragile e vanitosa, il sadismo dell'ufficiale, il carattere ostinato della madre e quello ribelle del figlio... Cosa non avrebbe fatto un Hanecke di simile materiale!

Alla fine restano in piedi solo due conflitti: quello padre/figlio (il primo si piega, il secondo no) e quello greco/tedesco (il dramma nascerà infine dal fraintendimento del primo: che attraverso l'amore per la cultura, si possa giungere a una vera comunione e compassione).

 

 

Nel giorno in cui il Sole 24 Ore annuncia che la casa farmaceutica Merck (tedesca, e dalle ironiche assonanze) sospenderà l’invio di farmaci antitumorali alla Grecia per i mancati pagamenti, mi sembra che il nazismo e la seconda guerra mondiale siano l’ultimo dei nostri problemi, o di quelli greci.


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