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Stato e Chiesa

Creato il 27 febbraio 2011 da Gadilu

Stato e Chiesa

Stamattina ho comprato Il Giornale (mi trovavo evidentemente in uno stato di minor resistenza). Volevo leggere l’intervista a Monsignor Angelo Bagnasco annunciata in prima pagina col titolo “Dal caso Ruby alla Libia. Parla il capo dei Vescovi”. Sorvolo sulle tematiche principali – mi avvelenerei il fegato inutilmente a chiosare i tanti esempi di subdola reticenza contenuti in quel testo - e passo a un frammento per così dire periferico (almeno apparentemente) dell’intervista. Riguarda il centocinquantenario dell’Unità italiana.

D. Lei ha annunciato che celebrerà una messa per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Non è curioso che la Chiesa – la quale visse il processo risorgimentale come una ferita – oggia sia convinta sostenitrice di questa festa, mentre alcune forze politiche ed economiche avrebbero preferito non celebrarla?

R. Effettivamente può apparire curioso, ma non assurdo. In realtà la Chiesa ha sempre alimentato l’unità del nostro Paese ben prima della sua unificazione statale. Quando la Penisola era ancora una pezzatura multicolore è stata la presenza quotidiana della Chiesa, la sua evangelizzazione e la sua azione, che hanno offerto un codice culturale e una matrice perfino sociale ed economica, tendenzialmente omogenei. Basterebbe pensare alla lingua e alla sua presenza capillare nelle parrocchie. La Chiesa, al di là delle contingenze storiche dell’unità e dello Stato pontificio che appariva come un baluardo indispensabile per garantire l’indipendenza del Papa, rappresenta del popolo italiano l’elemento sintetico, il punto di vista che accomuna, la presenza che affratella. Questo è quello che, come credenti oggi nel nostro Paese, vogliamo rappresentare: un contributo alla pacificazione e alla maturazione della nostra Patria, che finalmente torna ad essere pronunciata dopo decenni di ostracismo culturale e di indifferenza diffusa.

Bene. A parte il fatto che – storicamente – fu proprio la Chiesa a favorire per lunghissimo tempo quel processo di ostracismo culturale e di indifferenza diffusa nei confronti dell’Unità, quale senso attribuire a parole che fanno un po’ il verso a quelle di Vincenzo Gioberti (“E durerà il male, finché si vorrà sostituire una Italia gentile e chimerica all’Italia reale e cristiana, quale Iddio e una vita di diciotto secoli l’hanno fatta”)?

Adotterei cautelativamente la risposta di Emilio Gentile (Italiani senza padri. Intervista sul Risorgimento, Laterza 2011, pag. 107):

Allora la domanda è: quanto ha potuto pesare rispetto al nostro esile senso dello Stato nazionale il fatto che qualsiasi regime in Italia abbia dovuto competere per la sua legittimazione con un potere religioso, esistente al centro della penisola nel corso dei secoli come uno Stato temporale, che ha sempre rivendicato un primato morale e in sostanza anche politico sul potere politico dominante, e ha conservato questa rivendicazione, specialmente dello Stato italiano, fino a oggi? La Chiesa fa la Chiesa. Ma quando una classe politica ricerca la sua legittimazione morale nel consenso di un’autorità religiosa, allora essa rende inevitabilmente precaria la legittimità dello Stato, e questa precarietà è diventata ancora più evidente ai giorni nostri, quando lo Stato sembra assente. E ciò avviene senza che il primato della Chiesa si sia concretizzato in una più alta moralità pubblica e privata dei governanti dello Stato e della classe politica che alla religione dichiara di ispirare i suoi valori non negoziabili.



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