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Storie dell’altro ieri – Giorgio Ambrosoli

Da Iomemestessa

Chi era Giorgio Ambrosoli? Giorgio Ambrosoli era un avvocato di Milano. Che da un certo momento in poi è assurto ad eroe borghese.

Non credo aspirasse a tanto. Men che meno credo ambisse a morire ammazzato. Cosa, quest’ultima, che però accadde.

Perchè essere onesti, in Italia, oggi come ieri, è un azzardo che può costare moltissimo. Anche la vita.

Giorgio Ambrosoli, in realtà, non era un eroe. Era un avvocato, un padre, un marito, un uomo impegnato nella società, Era uno che aveva amici, interessi, curiosità, si occupava di cose.

Ed era una persona onesta. Era una persona onesta ed aveva un lavoro. Due cose che in sé non dovrebbero far assurgere allo status di eroe proprio nessuno. Sarebbe bello, e magari anche logico, pensare che queste due cose dovrebbero essere la regola, ma non è, evidentemente, così. Non lo era nell’Italia degli anni settanta. Non lo è nell’Italia di oggi. Non lo è neppure in molti altri posti. Che l’Italia non sempre è eccezione.

Aveva un lavoro, dicevamo. Faceva l’avvocato. Specializzato in diritto fallimentare e più precisamente in liquidazioni coatte amministrative. Un lavoro che procura delle grane già normalmente. Anche se uno lo esercita con rettitudine. Perchè insomma una liquidazione coatta amministrativa non è un bel momento per nessuno. Mai.

E’ abile, evidentemente. Perchè comincia presto a collaborare (parliamo della metà degli anni sessanta) con la Società Finanziaria Italiana, una società pubblica, sotto il diretto controllo del Ministero delle Finanze e del Governatore della Banca d’Italia.

La vita di Giorgio Ambrosoli cambia nel settembre del 1974.

Lui fa sempre il liquidatore. Collabora sempre con SFI. Alle Finanze siede un inutile Mario Tanassi, ma alla Banca d’Italia siede un altro personaggio perbene, Guido Carli.

Ed è proprio Guido Carli ad attribuirgli un incarico gravoso: gestire la liquidazione dell’ormai fallita Banca Privata Italiana di Michele Sindona.

Quel che gli si chiede è di esaminare la situazione economica dell’istituto. Peccato che dietro la situazione economica dell’Istituto (che è quella che è, se no non ci si troverebbe lì) ci sia un intreccio di politica, finanza, massoneria e quel tanto che basta di criminalità organizzata, di fattispecie mafiosa.

Le vicende della Banca Privata Italiana rappresentano una discreta spina nel fianco per la Banca d’Italia già dal 1971.

La Banca d’Italia indagò sulle attività di Sindona ed alla fine per evitare il fallimento degli istituti da lui fondati e gestiti, la Banca Unione e la Banca Privata Finanziaria, da palazzo Koch si decise di concedere un prestito diretto più che altro ad evitare un assalto agli sportelli da parte dei correntisti.

Della vicenda ebbe modo di occuparsi il direttore del Banco di Roma, Fignon.

E con la nascita della BPI (in cui confluirono le Banche di Sindona), Fignon divenne vicepresidente ed amministratore delegato.

Da lì a comprendere la gravità della situazione, il passo fu breve. Sindona flasifica abitualmente le strutture contabili ed attraverso un gioco di specchi usa la liquidità degli istituti da lui diretti per le sue attività.

Fignon comparte tutti i dati con Ambrosoli.

Probabilmente ricostruire le operazioni finanziarie di Sindona rilevando falsificazioni ed irregolarità non fu nemmeno troppo difficile, per Ambrosoli. Probabilmente sarebbe stato alla portata anche di un professionista meno avvezzo e acuto, perchè il marcio era tanto.

La via più semplice per fermarlo era tentare di corromperlo, ed infatti Ambrosoli divenne oggetto di pressioni e tentativi di corruzione, finalizzati non tanto a salvare la Banca (ci son pure dei limiti) ma a produrre documenti che evidenziassero la sostanziale buona fede di Sindona e gli consentissero così di smarcarsi dalle conseguenze civili e penali delle sue azioni.

Vi sono poi altre vicende, altri coinvolgimenti, lo IOR col Vaticano, ma ne parleremo altrove, in un’altra puntata, che oggi, quel che conta, quel che interessa è la scelta di Ambrosoli.

Sì, perché Ambrosoli resiste, ma le pressioni si fanno più pesanti e sempre meno amichevoli. In una lettera alla moglie, resa pubblica, i suoi timori sono evidenti.

Se poi dica che non teme per la sua incolumità, ma solo per una eventuale destituzione dall’incarico per rassicurare la moglie o per oggettiva convinzione, è arduo sapere.

Perchè quel che Ambrosoli non sapeva, e non ebbe mai modo di sapere, è che altri due protagonisti di questa vicenda, Sindona e Calvi, finiranno uccisi. Sindona nel 1986, Calvi nel 1982.

Quel che non sapeva, e non ebbe mai modo di sapere, è che, probabilmente, il suo destino era segnato indipendentemente dalle sue scelte. Perchè ormai, ciò che sapeva era troppo pericoloso per consetirgli di vivere.

E pure questi due particolari, non sono ininfluenti al fine della storia particolare di Giorgio Ambrosoli, avvocato milanese.

Perché lui, la sua scelta di onestà, la fa a prescindere. Solo quella, per quel che sa in quel momento, è la via del rischio. L’altra, invece un porto sicuro, oltre che, eventualmente remunerativo. Pure, decide di percorrerla, la via del rischio. Perchè per lui, e per le sue idee, che son conservatrici, monarchiche e senz’altro destrorse, è impensabile percorrere un’altra via.

Non è un eroe. E’ un uomo onesto. E sereno, nella sua onestà. Farne un eroe, significa metterlo in una teca. Invece varrebbe la pena farlo restare uno di noi. Uno che semplicemente, ha fatto una scelta. Quella di restare fedele a se stesso.

Ambrosoli avrebbe dovuto sottoscrivere una dichiarazione formale il 12 luglio 1979, lo ammazzano la sera prima, l’11 luglio. Se ne occupa un mafioso italo-americano, contrattato da Sindona.

Ma c’è un altro personaggio in questa storia milanese.

C’è Enrico Cuccia, il dominus di Mediobanca. Non è un sodale di Sindona. Questo, assolutamente no. Anzi, per il tipo che è Cuccia, c’è da supporre che uno come Sindona gli faccia, anche, un po’ schifo.

Pure, Cuccia deve incontrarsi con Sindona, a New York. Siamo nell’aprile del 1979. E Giorgio Ambrosoli è ancora vivo.

Di questo incontro si parlerà in un tribunale. E’ l’autunno del 1985 e si sta celebrando il processo che condannerà Sindona quale mandante dell’omicidio di Ambrosoli. Riporto, virgolettato, il dialogo tra il Pubblico Ministero, Dedola, ed Enrico Cuccia. Che, in quell’incontro, Cuccia apprese del progetto di assassinare Ambrosoli.

“Nell’ incontro di New York, Cuccia apprende per la prima volta del progetto di eliminare Ambrosoli. Non ha sentito la pesantezza della cosa, non ha avvertito l’ obbligo morale di avvisare, se non l’ autorità giudiziaria, almeno l’ avvocato Ambrosoli in privato?”, chiede Dedola.

Risponde Cuccia: “Mi rincresce molto, ma se avessi riferito ai giudici quella infelice frase, Sindona mi avrebbe accusato certamente di calunnia. Mi rendo conto… ma penso che non avrei prolungato di un giorno la vita del povero Ambrosoli, purtroppo”.

Dedola insiste: “Questa cautela vale forse per le autorità giudiziarie. Ma non poteva avvertire privatamente Ambrosoli?”. Cuccia ribasdisce: “Ambrosoli non poteva che avvertire le autorità giudiziarie, e saremmo arrivati direttamente a una denuncia per calunnia”.

E quando ci pensi, ti chiedi anche come faccia uno ad andare a dormire con se stesso, la sera.

Ambrosoli dicevamo, morì l’11 luglio 1979. Con quattro colpi di pistola.

Al funerale non presenziò nessuna autorità pubblica, probabilmente erano già in vacanza.

Nel 2010, Giulio Andreotti, nel corso di un’intervista a La Storia Siamo Noi, parlando di Giorgio Ambrosoli, disse: “Certo era una persona che in termini romaneschi se l’andava cercando”.

Un’affermazione che dice pochissimo su Ambrosoli e molto su Andreotti. E che conferma il concetto che si diventa eroi anche e soprattutto perchè ci sono uomini di stato convinti che uno che sta facendo, semplicemente, il proprio dovere, sia uno che se la va cercando.

Il figlio di Ambrosoli, nel 2013, durante la commemorazione di Andreotti, da parte della Regione Lombardia, si alzerà ed uscirà dall’aula. Rimarcando che non tutto finisce, sempre, nel calderone


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