Un tempo si usava scrivere: “liberamente tratto dall’omonimo romanzo”, o cose simili. Mai come in questo caso la dicitura sarebbe azzeccata. Perché Suburra, il film, mantiene ben poche storie del libro: taglia, modifica, semplifica, per ovvi motivi: un romanzo di quasi 500 pagine troverebbe il suo corrispettivo ideale in una serie, non in un film.
E infatti, stando a quanto leggo in giro la serie si farà.
Ma non è questo il punto.
Lasciamo da parte il libro (che al solito è molto più bello) e valutiamo il film come se fosse una storia a sé.
Novembre 2011, Mafia Capitale. In una Roma cupa e piovosa, teatro di tanta corruzione, si muove indisturbato il Samurai, un boss. È a capo di un grosso progetto, deve assicurarsi che tutto proceda secondo i piani. L’intenzione? Trasformare Ostia in Las Vegas. Un piatto ricco spartito tra romani e “famiglie della bassa Italia”, cioè clan della camorra e della ndrangheta.
Il problema è che tra i romani, o meglio, tra quelli di Ostia e gli zingari, scoppia la guerra.
E se la malavita è in crisi, la politica è messa anche peggio. Per non parlare del Papa, prossimo alle dimissioni, e dell’economia, in ginocchio ormai da qualche anno…
La trama, nonostante i tagli e le semplificazioni, regge e intriga. La storia tiene, non ci si annoia. I colpi di scena non mancano, anche per chi ha letto il romanzo. Alcuni attori sorprendono per le loro performances: su tutti Elio Germano e Alessandro Borghi (er numero 8). Gli altri, grossomodo, sono tutti convincenti e azzeccati.
I problemi sono due.
Da una parte c’è un Claudio Amendola bravo, dignitoso nella sua interpretazione, ma mai del tutto convincente nei panni del cattivo. È come usare una buona scarpa da tip tap per fare ginnastica: la qualità può essere anche buona, ma non è adatta a quel tipo di attività. Un ruolo come quello del Samurai avrebbe chiesto un’altra fisicità, un’altra voce. Avrebbe richiesto un uomo magro, scarno, austero, non i tratti morbidi e gentili dell’attore romano. E visto che nel film manca completamente l’antagonista del Samurai, quel Marco Malatesta così convincente, la pecca si nota anche più. Una colonna portante vacilla.
Dall’altra parte c’è un finale insoddisfacente. Senza entrare nel merito di cosa succede, si ha l’impressione di un tentativo di giustizia, di consolazione. Della serie sì, la capitale è marcia, ma poi s’è fatta pulizia, è tutto a posto.
In definitiva, un film discreto. Lontano dall’essere imperdibile.
Aniello Troiano