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Sui molteplici significati del termine “democrazia”.

Creato il 11 gennaio 2014 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

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220px-Gentile_e_Mussolini_esaminano_i_primi_volumi_della_Treccanidi Michele Marsonet. Quando qualcuno sottolinea la grande ambiguità della parola “democrazia” corre dei rischi. Non v’è dubbio, da un lato, che si tratti di un’operazione corretta dal punto di vista filosofico e scientifico, e lo dimostra la sterminata letteratura disponibile sul tema. I rischi sono dovuti al fatto che oggi – e in particolare nel mondo occidentale – siamo così abituati a far seguire tale parola dagli aggettivi “liberale” e “rappresentativa” da essere automaticamente indotti a escludere che il termine possa avere, per altri, un significato molto (e talora radicalmente) diverso.


“Democrazia” è infatti una parola tipicamente polisemica, il che comporta a volte polemiche sterili sul piano della pura ricerca, e al contempo pericolose poiché, a seconda del significato che si adotta, vi sono ricadute concrete nell’agire politico. Antica è l’osservazione che totalitarismo e dittatura non sono degenerazioni patologiche della democrazia, ma ne rappresentano piuttosto esiti possibili quando il contesto storico muta. Osservazione ancora in grado di scandalizzare, nonostante tanti esempi siano ampiamente disponibili.

Tutti concordano sul significato meramente etimologico: “potere (o governo) del popolo”. Il problema nasce quando si cerca di disambiguare l’espressione. Quali sono infatti le modalità che consentono di esplicitare la piena sovranità popolare? Siamo portati a rispondere che condizione essenziale è la possibilità di tenere periodicamente consultazioni elettorali libere, mediante le quali al popolo – per l’appunto – viene fornita l’opportunità di cambiare i propri rappresentanti. Restano se a giudizio della maggioranza hanno governato bene, e tornano a casa in caso contrario per essere rimpiazzati da figure che possono anche proporre programmi alternativi rispetto a quelli dei predecessori. Si noti che il meccanismo della rappresentanza, spesso criticato, diventa necessario quando la popolazione aumenta in misura considerevole impedendo la democrazia “diretta” ipoteticamente sperimentata nelle società tribali o in alcune città-stato dell’antica Grecia.

Dico “ipoteticamente” poiché, anche in quei casi, non è chiaro fino a che punto la democrazia fosse “diretta” sul serio. Le stesse difficoltà sorgono ai giorni nostri, col tentativo di rendere davvero contigui elettori ed eletti tramite la Rete. Presupposti indispensabili: “ognuno” dev’essere connesso e sono necessarie garanzie ferree circa l’impossibilità di manipolazioni. Tornando ora alla polisemia della parola, è opportuno notare che il significato adottato è diverso con il variare degli assunti filosofico-politici di base. Valga un esempio per tutti. Negli ultimi due secoli il liberalismo ha cercato di conciliare principio democratico e principio della libertà separando in modo netto società e Stato, con quest’ultimo che assume la funzione di “guardiano esterno”.

Nel ’900 due pensatori apparentemente antitetici come Giovanni Gentile e Antonio Gramsci hanno contestato, pur con parole diverse, la separazione di cui sopra appellandosi all’avvento di una “volontà collettiva” che permea di sé pure l’area dello Stato. Il consenso non si esaurisce nell’atto del voto, ma è un processo sempre attivo che prescinde dal singolo individuo – elemento portante del liberalismo – e si basa invece sul concetto di “uomo collettivo”. Gramsci rimarca con questo la fine della “astratta” democrazia liberale e annuncia l’era della democrazia di massa. Quest’ultima è una democrazia organica, per descrivere la quale occorre procedere a un rinnovamento totale del vocabolario politico con termini quali egemonia culturale, e scrive: “ma cosa significa ciò se non che per Stato deve intendersi oltre all’apparato governativo anche l’apparato privato di egemonia o società civile?”. Lo Stato non è guardiano come lo intendevano i liberali, ma “educatore”, e la vera democrazia è quella in grado di assorbire la società politica nella società civile. Gentile, da canto suo, parla di Stato “in interiore hominis”, che trova nell’autocoscienza collettiva il proprio indispensabile fondamento.

Per entrambi la politica viene assorbita dalla vita organica e, a differenza del “ristretto” liberalismo classico, solo l’uomo collettivo può raggiungere l’universalità e produrre una democrazia finalmente realizzata nella quale non sussista più la distinzione tra forma (le norme) e contenuto (la vita). Idee elaborate, ancora una volta con linguaggio diverso, da Carl Schmitt. Con tutto questo voglio far notare che la coincidenza tra principio democratico e principio della libertà non è affatto scontata.

Lo è – ma fino a un certo punto – per coloro che vivono nei Paesi occidentali, e diventa pressoché incomprensibile in altri contesti politici, sociali e culturali. Grandi teorici liberali come Karl Popper e Isaiah Berlin lo sapevano benissimo, sottolineando nelle loro opere che uguaglianza e libertà sono destinate a entrare in conflitto.

Featured image, Giovanni Gentile e Benito Mussolini mentre esaminano i primi volumi dell’Enciclopedia Italiana.

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Categorised in: 1, Filosofia, Michele Marsonet


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