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Tema: Nametil

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Tema: NametilDall'aereo il Mozambico è una terra buia, di notte è inesistente. Prima di lasciare Maputo mi hanno detto di non parlare con nessuno, di stare perfino attento alla polizia che crea solo problemi - ti chiedono il passaporto e poi cominciano a cercare irregolarità – mi aveva detto uno dei volontari – e quando ne trovano qualcuna, ma anche quando non ne trovano,  ti ordinano di seguirli in caserma, e se tu ti opponi puoi sempre scegliere di farteli amici, e allora ti sorridono e ti chiedono dei soldi o una ricarica telefonica, a volte anche lattine di birra o Coca Cola, qualunque cosa. Non fidarti di loro.Quando l'aereo atterra, a Nampula non c'è nessuno ad aspettarmi; all'interno dell'edificio cadente e poco illuminato attendo insieme ad altri che il nastro trasportatore porti i bagagli ma dopo qualche rumore inceppato il nastro si ferma. Fuori vengo circondato da tassisti che mi offrono di accompagnarmi, mi si parano davanti, uno prova pure ad anticipare i tempi per convincermi ad accettare: afferra la mia valigia e prova a caricarla in macchina ma lo fermo mentre mi parla delle sue tariffe convenienti, poi chiamo il direttore a Maputo e gli spiego la situazione – tutto sotto controllo – mi dice – sta per arrivare un taxi che ti porterà al progetto – poi chiude.L'uomo che esce dalla macchina si ferma di fronte a me, non è un tassista e poi non c'è neanche il cartello “taxi”, ma dice di essere stato chiamato da Maputo quindi mi fido; all'interno  una ragazza seduta accanto a lui mi sorride (io non ho la forza di ricambiare), mi siedo e rimango in silenzio per tutto il tragitto. All’arrivo l'uomo ferma l'auto, mi fa cenno di aspettare, tira fuori un taccuino e su un foglietto di carta sudicio e rovinato scrive 300 Meticais. Cerco all'interno del portafogli la somma di denaro richiesta, trecento meticais (non ho idea di quanti soldi siano in euro), sono veramente troppo stanco, glieli consegno in mano, lui ride, è grasso, ha un’apertura della bocca enorme, mi afferra una mano, la stringe forte e mi dice – obrigado, my friend.
Alle sette del giorno dopo sono già in viaggio. A Nametil si arriva attraversando una strada lunga e terrosa - terra rossa. La sabbia entra all'interno del veicolo e dentro di me (la mia lingua diventa subito secca e sento la gola bruciarmi e i granelli di sabbia impastati dalla saliva che scendono lungo l’esofago graffiandolo), eppure non riesco a smettere di stupirmi, è tutto come l'avevo immaginato - l'Africa delle cartoline e delle immagini su internet: un' unica strada e ai bordi, fino all'orizzonte, una distesa di terra secca, di alberi, ogni tanto sul ciglio della strada una donna che porta un secchio o un bidone sulla testa, a volte qualche bambino.La strada è deserta e l'autista dell'auto su cui mi trovo va molto veloce, se ne frega delle buche che incontriamo, e io sento il costato comprimersi ogni volta che ne prendiamo una, ogni volta che ci finiamo dentro e mi aggrappo al sedile per attutire gli effetti dei colpi, il caldo è insopportabile, il sudore che cola, mi manca il fiato ma eccitazione e stanchezza si mescolano; il desiderio di scendere dall'auto per muovere un po' le gambe è forte, ma poi arriva un colpo e poi un altro (il tempo di riprendere fiato non ce l’ho); a ogni percossa mi aggrappo più forte, e vedere spuntare qualche capanna ai bordi della strada mi tranquillizza – ci stiamo avvicinando al paese.Arrivati a Nametil l'autista rallenta, mi dice qualcosa ma non capisco il portoghese, poi si ferma e io scendo dall'auto; per strada due uomini, mi fissano con insistenza, parlano e poi si voltano ancora - probabilmente i bianchi non arrivano mai fino a qui –; non mi guardano, mi stanno studiando.Federico Orlando

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