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Tema: The british dream

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Sez. In viaggioSvolgimentoTema: The british dreamQuesta è uguale a tutte le altre città inglesi in cui sono stato: Reading, Staines, Ashford, Slough e chissà quante altre di cui non ricordo il nome, in versione più grande o più piccola e sempre con la stessa high street fiancheggiata di case di mattoni rossi, i college con i parchi fuori, i caffè delle catene, i supermercati, i centri commerciali. Ci vivo da un po’, dopo essermi stancato di peregrinare, tanto alla fine quello che trovo è sempre un lavoro infimo in qualche ristorante dal nome pacchiano tipo “Sopranos”, “Gondola”, “Bella Italia” dove non mi fanno il contratto e la paga all’ora è al di sotto del minimo nazionale. Viaggiare tanto in un paese straniero come questo senza mai casa e lavoro fissi ti lascia addosso una polvere di stanchezza e nausea e tanta nostalgia, ma quando torni in Italia ti rendi conto che la preferisci alla polvere secolare che lì si è depositata dopo anni di immobilità: se ci resti troppo, afferra anche te e non ti fa più muovere. Dopo un po’ mi sono ambientato in questa bella cittadina con il fiume in mezzo, al ristorante mi hanno dato qualche responsabilità in più e anche alzato un po’ la paga, vivo serenamente.Un giorno mi chiama mia zia dall’Italia. Mio cugino non ne vuole proprio di studiare, si è appena diplomato e non ha intenzione di entrare all’università né riesce a trovare un lavoro, qui non c’è niente, mi dice, solo disperazione, meglio per lui provare a trasferirsi finché è giovane, impara meglio l’inglese. Sento la stanchezza nel suo tono di voce mentre mi chiede se riesco a dargli un tetto e un po’ d’aiuto a inserirsi in un contesto lavorativo almeno per i primi tempi e le dico sì, che lo faccia partire, mentre penso che la situazione anche qui non è delle migliori e che serviranno un bel po’ di soldi, almeno all’inizio, per riuscire a permettersi un affitto.
Mio cugino arriva dopo tre mesi, tre mesi di preparazione, tre mesi in cui mia zia gli ha fatto e disfatto innumerevoli volte la valigia e gliel’ha riempita solo di cose pesanti, tanto che adesso lui a casa mia sta a petto nudo - il riscaldamento è troppo alto. Lo vedo dopo tanto tempo e anche se non è più un ragazzino mi sembra così piccolo, ma non impotente o indifeso: è ben deciso a darsi da fare per scrollarsi la polvere secolare di dosso, ha entusiasmo, quello che io ho perso da qualche tempo. Si installa a casa mia (ma è una soluzione provvisoria, il padrone di casa non vuole che ospiti altre persone) e intanto gli faccio fare una prova al ristorante dove lavoro. Lo prendono. Si dà da fare per imparare il mestiere, è sempre puntuale e costantemente in movimento, non c’è un attimo che lo vedi fermo e questo al capo piace. E’ con l’inglese che ha qualche problema, quando posso vado io a prendere i suoi ordini senza farmi vedere dal manager, altre volte deve farsi ripetere ciò che i clienti vogliono. La maggior parte di loro è gentile, ma capita anche lo stronzo che risponde in malo modo. Io mio cugino lo conosco, non è uno che ci mette molto a spazientirsi, ma per lui quest’occasione è importante e non risponde mai alle provocazioni, si scusa e sorride, quasi non lo riconosco e sono fiero di lui. 
Una sera arriva un gruppo di uomini di varie età e nazionalità, il tipo di stronzi di cui sopra, e nemmeno tanto a posto come persone. Quando entrano, percepisco già che guardano male mio cugino - vorrei andare a prendere io le loro ordinazioni, ma sono assegnato ad altri tavoli e proprio in quel momento da uno mi chiedono il conto. Questi hanno già bevuto, si rivolgono a mio cugino in maniera sgarbata fin dall’inizio, accavallano le parole in un flusso incomprensibile di voce impastata, lo vedo arrancare, cercando di capire qualcosa, ma necessariamente deve chiedere di ripetere. Il primo insulto arriva subito: italiano di merda. Fatemi parlare con qualcuno che capisce l’inglese. A voce alta, troppo alta. Mio cugino si scusa, intanto le voci hanno richiamato il manager, che seccato lo manda via e prende le ordinazioni. Ma quelli non hanno finito, quando mio cugino torna a portare le bibite e poi da mangiare continuano a insultarlo, a cercare di innervosirlo e farlo sbagliare, io sono lì nei paraggi e sento tutto, anche le offese più gravi, anche quelle che lui probabilmente non riesce a intendere, e devo mandarle giù. Lancio loro uno sguardo e mi chiedono cos’ho da guardare, io, un altro incapace, perché non chiudono questo ristorante invece di assumere gente come me. Non rispondo, mi volto, continuo a lavorare incassando il più brutto episodio di questo genere da quando vivo qui, dove di solito i locali ti guardano di buon occhio o meglio vivono e lasciano vivere, come nella migliore tradizione inglese – sempre che non incontri dei nazionalisti - e anche gli stranieri non ti trattano male. Per mio cugino è diverso, è solo da dieci giorni che è qui e non sa che questi sono solo i peggiori clienti che gli potevano capitare. Finalmente il gruppo si alza per andarsene, non prima di avergli rivolto qualche altra frecciatina, e lui sulla porta questa volta risponde con il primo insulto che gli viene in mente. Quelli se ne vanno minacciando.Ho paura, gli dico, erano veramente tanti e non è bene mettersi contro gente del genere, tanto più sul lavoro. Lui sbrocca, mi dice che non ne poteva più, che se non fosse stato in servizio gli sarebbe saltato addosso, sì, gli dico io, a nove persone. Deve stare zitto e sopportare, che qui non è nella posizione di ribellarsi a nessuno. A fine turno, quando andiamo a casa, non faccio altro che guardarmi alle spalle, ma sembra non esserci nessuno, arriviamo al portone e tiro un sospiro: siamo dentro, chiudo il più velocemente possibile la porta. Ma rimane incastrata, c’è qualcosa che le impedisce di chiudersi. E’ un piede. Irrompono i tizi che erano al ristorante urlando e ancora insultando, sono tanti, troppi, vedo solo un ammasso di corpi che in fretta afferra mio cugino e fra tutte queste sagome scure il bagliore di una lama. Mi hanno sollevato da terra, adesso qualcuno mi tiene fermo contro il muro, riesco a vedere mio cugino, sul pavimento, attorniato dalla maggior parte di loro, e ognuno calcia, picchia, sputa, infierisce sul suo corpo. Gli urlo di lasciarlo andare, lo ammazzate, lo ammazzate, e arriva il primo pugno, poi il secondo, poi tanti che non li ricordo e smetto di ricordare: nel mio cervello una nebbia densa come sul fiume in novembre, non sento più dolore.Mi risveglio in un ospedale sconosciuto, dal silenzio che c’è potrei anche essere morto. Spingo il bottone per chiamare l’infermiera, ne arriva una sorridendo al fatto che mi sono svegliato. Sta per spiegarmi cosa è successo, dove sono, in che condizioni, ma l’unica cosa che voglio sapere è dove si trova mio cugino. Chi? L’altro ragazzo che era con me? L’infermiera ammutolisce, il suo sorriso si spegne. Mi dice che non sarebbe compito suo comunicarmelo, ma l’altro ragazzo non ce l’ha fatta, è morto poco dopo essere stato trasferito in questo stesso ospedale. Non so cosa provo in quel momento, dolore o rabbia, la verità è che la prima cosa a cui penso è mia zia. Alla sua speranza, alla valigia stipata di maglioni in buste sottovuoto ma in cui ha trovato lo spazio per mettere dei regali per me, ai soldi che ha dato a mio cugino, alla convinzione di dargli un futuro, un lavoro, al sogno che lui ha ingoiato insieme ai denti e a litri di sangue. L’infermiera chiama un medico che arriva con un ufficiale di polizia, il quale mi spiega che i responsabili sono stati identificati quasi tutti e sono già in stato di fermo, mi domanda in che rapporti ero con il ragazzo che è morto, se posso confermare la sua identità. Chiedo se i familiari sono stati avvisati e lui risponde che le operazioni sono ancora all’inizio e l’unico parente del ragazzo di cui sono a conoscenza sono io. I genitori, dovete informare i genitori, dico, e do nome e indirizzo dei miei zii. Il poliziotto mi assicura che saranno informati il prima possibile e convocati per il riconoscimento del cadavere, il caso ha già avuto vasta eco internazionale e loro faranno di tutto per affidare i colpevoli alla giustizia. Mentre lui e il medico (che mi ha assicurato che sono fuori pericolo) vanno via, penso alle sue parole, alla “vasta eco internazionale”, immagino le foto di mio cugino prese da Facebook che rimbalzeranno su giornali online, blog, social network, e gli immancabili commenti di chi riterrà di avere qualcosa da dire: magari qualcuno si sentirà in dovere d’indignarsi contro gli inglesi, forse di tacciarli di discriminazione nei confronti degli italiani, non facendo altro che alimentare altro odio -perché ci vorrà un po’ prima che si scopra che quelli che ci hanno aggrediti erano quasi tutti di altre nazionalità-, diranno che dovremmo accogliere così come vorremmo essere accolti, altri ribadiranno che si dovrebbe riservare lo stesso trattamento agli immigrati in Italia, qualcun altro rifletterà sul fatto che la mancanza di lavoro nel nostro paese ci spinge in luoghi dove veniamo brutalmente ammazzati. So già che non riuscirò a sopportare tutte queste parole, allora appoggio la testa sul cuscino e provo a chiudere gli occhi.Valeria Balistreri

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