Perla inestimabile del moderno cinema “weirdo” nipponico, l’opera di Kawasaki riesce nell’impossibile intento di coniugare, con invidiabile misura, cinema demenziale, satira sportiva, melodramma e rimandi originali al celebre filone del kaiju-eiga (film con protagonisti enormi mostri che combattono su modellini in scala di città).
“Dopo aver mandato al tappeto i più temibili avversari, il wrestler Taguchi è inaspettatamente sconfitto da Calamari Wrestler, un inverosimile calamaro gigante che, materializzatosi dal nulla, fa irruzione sul ring e lo mette fuori combattimento con un’abile presa dei suoi tentacoli. Nessuno sa da dove sia sbucato il mostro, ma il pubblico già lo acclama come il più grande lottatore di tutti i tempi. Taguchi, roso dall’umiliazione, pensa soltanto alla rivincita, mentre Myako, la sua ragazza, perde la testa per Calamari nel quale crede di veder reincarnato lo spirito del suo ex fidanzato, morto qualche anno prima per un male incurabile”
Meritevole innanzitutto per aver rifiutato (a priori) l’uso di effetti digitali per la realizzazione delle tre creature coinvolte nella vicenda (Calamari Wrestler, Octopus e Squilla boxer), il quarto lavoro del folle genio Kawasaki ha ridefinito, con disinvoltura e sensibilità, le linee guida della stessa commedia asiatica, orgogliosamente estraniatasi dai meccanismi tipici delle cinematografie occidentali: un uomo calamaro, formatosi spiritualmente in un monastero buddista, è inserito in una società non propriamente “normale”, logorata com’è da avidità e competizione.
Lo sport è degradato a vittima sacrificale di impresari senza scrupoli, a loro volta succubi dello showbiz e del narcisismo che caratterizza i suoi campioni di punta. L’ingresso alieno di un mollusco cresciuto a meditazione zen, principi sani e disciplina fisica non può che stravolgere candidamente un sistema minato fin nelle fondamenta: diverrà così chiave di volta, non per quello che è ma appunto per quello che farà.
Un involontario inno alla diversità, sviluppato tecnicamente in maniera (volutamente?) superficiale e talvolta sciatta, come se il giovane regista sentisse il bisogno di esprimere tutto con l’impellenza di un instant-movie. Magari una necessità dovuta anche al budget di partenza, che tuttavia non grava poi tanto sui risultati finali. La parabola sportiva, costruita strizzando l’occhio persino ai “training impossibili” di Rocky Balboa, regala i momenti più riusciti di tutto il film e conducono verso il tradizionale scontro finale ed il contro-epilogo romantico (questo decisamente meno ispirato). Un peccato che non sia stato mai distribuito, nemmeno per il mercato DVD/Blue-ray, in Italia.
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