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The Wolf of Wall Street: cinema oltre ogni limite – Recensione

Creato il 23 gennaio 2014 da Oggialcinemanet @oggialcinema

23 gennaio 2014 • Recensioni Film, Vetrina Cinema

Se usciti dalla sala avvertirete uno strano senso di volerne ancora, non preoccupatevi: è il cinema di Scorsese che crea dipendenza, proprio come le droghe che scorrono a profusione nel suo ultimo, esageratissimo, scorretto, colorato, sboccato, stordente, spettacolare film.

Una pioggia di aggettivi non basta a descrivere l’iperbole esistenziale tracciata da The Wolf of Wall Street, che racconta sì il curioso caso di Jordan Belfort, re dei broker e lupo della finanza deciso a far soldi nell’unico modo possibile per averne a palate – cioè in maniera spudoratamente illegale – ma descrive anche bene la brama di potere e successo che si annida nell’animo umano. E lo fa nel modo preferito da Martin Scorsese: esagerando. L’eccesso è insieme tema narrativo e cifra stilistica di una pellicola che strizza l’occhio a tutta la cinematografia scorsesiana, da Quei bravi ragazzi (aggiungeteci Wall Street, mescolate con lanci di nani e orge a go go, sostituite i soldi alle pistole e, con le opportune cinefile variazioni, otterrete questo film) a Casinò (la protagonista femminile, la bionda Margot Robbie dal fisico mozzafiato, è una continua citazione alla divina Sharon Stone), passando per The Aviator (altro biopic sull’ascesa e caduta di un vincente), The Departed (occhio alla talpa, e ai poliziotti troppo svegli – tipo Kyle Chandler) e Shutter Island (l’individuo che perde contatto con il reale, e finisce per smarrirsi), lasciando una traccia sfavillante di Shine a Light nella caratterizzazione del trascinatore da palcoscenico molto vicino a una rockstar (con tanto di groupies al seguito).

The Wolf of Wall Street con Leonardo DiCaprio

Leonardo DiCaprio in una scena di The Wolf of Wall Street

Autocelebrativo, compiaciuto, coraggioso, Scorsese torna a firmare un film che crea dipendenza e vertigini. E lo fa tramite il suo attore pupillo Leonardo Di Caprio, con cui dopo 12 anni vanta ormai una sintonia totale. Ogni scena è un pretesto per mettere in mostra le sue abilità recitative, e Leo si mostra generoso come non mai: sostiene lunghi monologhi sul crinale del delirio rendendoli credibili, simula orgasmi multipli e sniffate a perdifiato, si infuria, gode, si dispera, scoppia dalle risate, si intreccia con il filo del telefono, arriva addirittura a strisciare a terra lungo un’intera scalinata per poi aprire l’automobile con i piedi, a farsi sodomizzare con una candela da una mistress vestita in lattex, a battersi il petto cantando con un superlativo Matthew McConaughey (in una scena che è già cult – ma anche Jean Dujardin, con la sua brillante performance, non scherza).

Dopo tutto questo, come si fa a non perdonare al film di non essere certo il migliore di Scorsese? E come si fa a non rivalutare una volta per tutte quel Gloria di Tozzi che, dopo aver chiuso in bellezza l’omonimo film di Sebastian Lelio, torna con prepotenza in una scena che ironizza sugli italiani come sulla maschera mediatica che ha tenuto nascosto ai più lo straripante talento di DiCaprio (il sarcasmo su Titanic è esilarante – tornano un “Fidati di me” e un’onda gigantesca familiari). Come si fa, infine, a non applaudire la giovinezza artistica di un toro scatenato della regia capace di ammaliare per quasi tre ore facendo dimenticare qualche difetto del film tramite un baratto tacito con lo spettatore? Amnesia temporanea contro una valanga di immagini che lo assalgono, lo stordiscono come il Quaalude e restano impresse. A fine film, solo tre parole:  “Vendimi questa penna”.

di Claudia Catalli per Oggialcinema.net

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