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Ti accorgi di avere trent’anni quando

Da Olga


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E’ morta la vecchia. Lo so che il titolo è fuorviante, ma è quanto è accaduto: è morta la vecchia.

Saranno ormai venti giorni, e mancano quattro mesi ai miei trent’anni. E’ il mio primo reale lamento funebre.

La vecchia viveva sotto una strato di polvere quando io avevo 15 anni e non studiavo. Leggevo libri e uscivo con quelli che io e la vecchia chiamavamo con alterigia i  “ragazzetti”.

Viveva in una casa al terzo piano di un condominio con ascensore che si bloccava. Io ho sempre visto solo uno stanzino zeppo di libri pieni di polvere, uno stanzino che era il suo studiolo. Un armadio sotto il quale c’era così tanta polvere che se ci cadeva sotto qualcosa la vecchia mi guardava con sadica rassegnazione e mi diceva “temo che sia perduto per sempre”. Io, che fin da giovane ero abituata a perdere tutto, le rispondevo: “fa niente”. Dentro di me pensavo che avrebbe potuto chiamare una donna delle pulizie, non le mancava la grana. Quando si raggiunse un po’ di confidenza ebbi l’occasione di visitare la cucina, sul fornelletto c’era una pentola con del materiale bruciato. Cicerone. Era stata colpa di Cicerone.

Ho conosciuto la vecchia perché mia mamma mi ci ha mandato, per le ripetizioni di latino. Mia madre è professoressa di latino, ma mi diceva che con lei mi prendevo troppa confidenza e avrebbe fatto qualunque cosa pur di non passare un’ora con me a discutere del dativo di possesso.  Anche pagare. “Olga, io agg’ia sta bbuon” mi diceva in napoletano. La capisco, anche se al tempo la odiai.

Così un giorno, di fronte all’ennesimo cinque, dovuto alla pigrizia che mi impediva persino di copiare, mi disse: “mo’ basta”. Mi mandò dalla vecchia.

A mia sorella venne il singhiozzo e le tremarono le mani quando glielo dissi. Era toccata a lei la stessa sorte, per il greco.  Le lezioni della vecchia duravano dalle 3 alle 6 ore. La durata di una versione. Meglio si traduceva, meno durava. Mia sorella mi raccontò di una volta in cui entrò alle 18 e ne uscì a mezzanotte. Mia madre provava un sadicissimo piacere nel vederci tornare a casa sfatti e demoralizzati. E i voti salivano.

Tutti i rapporti tra studente e vecchia cominciavano così: “dimmi le parti del discorso”. I più sfacciati firmavano la loro condanna rispondendo “questa è una lezione di latino, non di grammatica”. Al quale seguivano frasi come “mi meraviglio che un asino come te conosca persino che le parti del discorso afferiscono alla categoria grammatica” E via dicendo.

“Su, le parti del discorso sono nove, Olga” “ma non so… che cosa sono?”

“nome, verbo…” “ah, ok: nome, verbo, aggettivo, avverbio”
“bene, non siamo a digiuno allora, la grammatica la sai”

“no anzi, ho voti alti e poi deve essere perché mi appass..”
“sì certo, questo non ti salverà dal destino di addetta alle pulizie dei cessi della stazione se ti ostini a non imparare le declinazioni”.

Da quel giorno il mio principale problema diventò dimostrare alla vecchia che io ero bravissima.

Non mi interessava altro nella vita se non ottenere di essere la sua migliore studente. Le lezioni cominciarono a diminuire nell’orario. Io diventai la sua prediletta. Passavo pomeriggi da lei che mi raccontava, tra un ablativo assoluto e un gerundivo, aneddoti della sua secchionaggine, della sua vita, della guerra, di sua mamma, di suo fratello.

Era una tipa che badava al risultato, diversamente da me, che ero di sinistra sin da giovanissima. Un giorno presi 9. Era un voto regalato. Le dissi “guarda, Vecchia, è un 9 ma con quel professore lì è facile. Mia madre mi avrebbe dato tranquillamente 4”. Mia madre.

La vecchia mi rispondeva “chissene frega, un 9 è un 9. E  chissene frega di tua madre poi”.

Io sorridevo. Avevo 18 anni. Mia madre era sempre mia madre, e stavo bene se mi sentivo autorizzata dalla vecchia a fregarmene.

Non glielo diedi io questo soprannome, ma una mia compagna di classe. Lei mi diceva che la vecchia parlava sempre di me, con lei.

A un certo punto io e la vecchia stabilimmo che dovevo imparare il greco, all’università. Cominciarono le lezioni, mi appassionai. Studiai anche… un po’. Traducevo benino. La grammatica la trovavo più semplice del latino, ma non la semantica. L’ultima volta l’ho sentita a 27 anni, vivevo a Milano, e mi ero trasferita per lavorare da Smemoranda. Le dicevo che quindi sospendevo l’idea del greco per sempre. Lei era comunque felice.

Mi ha chiamato mia madre, qualche giorno fa. Mi ha detto “senti volevo dirti due cose, una brutta, e l’altra bella”

“vai ma’, dimmi chi è morto”

“La Bordin”

La vecchia si chiamava Elda Bordin. Un bel nome, ho sempre amato i nomi che cominciano per vocale e durano poco: Elda, Ada, Ida, Olga, Anna, Emma, Imma.

Non so se fossi friulana o veneta, dai tuoi racconti non riuscivo a capirlo.

Sei morta da venti giorni. 3 pasti al giorno per 20. 60 pasti. Venti volte le 18:30. Circa tre volte sabato. Tre volte giovedì. Se dico in giro che a scrivere questa cosa mi sono scese un milione di  lacrime, nessuno mi crede. Nessuno.

O forse, una, sì.


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