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TURCHIA: La protesta silenziosa di Taksim. Fermi in piedi guardando Ataturk

Creato il 20 giugno 2013 da Eastjournal @EaSTJournal

Posted 20 giugno 2013 in Turchia


di Matteo Zola

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Ormai ci conoscete, sapete distinguere un’opinione da un fatto, e sapete che abbiamo l’onestà di non vendervi le nostre idee come verità. Quando non siamo d’accordo abbiamo l’abitudine a dirlo, e non ci piacciono troppo le semplificazioni del nostro giornalismo. Ma veniamo al punto.

Leggo l’entusiasmo corale della stampa nostrana nell’apprendere che un uomo, Erdem Gunduz, coreografo e artista turco, dal pomeriggio del 17 giugno se ne sta in piedi, in piazza Taksim, in segno di protesta. Una bellissima protesta, un gesto simbolico di sfida al potere oppressivo esercitato da primo ministro Erdogan. Erdem Gunduz è stato subito imitato da molti giovani. Erdem se ne sta lì, silenzioso, con lo sguardo rivolto verso il centro culturale Ataturk. Abbiamo più volte spiegato che piazza Taksim è da sempre un simbolo del kemalismo, ovvero dell’ideologia politica derivata da Mustafa Kemal, poi fregiatosi dell’epiteto di Ataturk, “padre dei turchi”. In piazza Taksim si erge il monumento alla Repubblica (inaugurato nel 1928 commemora la guerra d’indipendenza turca guidata da Ataturk). La decisione di Erdogan di far sorgere nella piazza un centro commerciale ha quindi suscitato la reazione degli ambientalisti, e di tanti giovani stanchi di un governo oppressivo, come pure dei kemalisti, che vi vedevano lo sfregio dell’eredità di Ataturk ad opera di un governo islamico che per di più vuole edificarci una moschea gigantesca.

Il problema è che il kemalismo non è un’ideologia politica democratica e con il pretesto della laicità ha sempre rovesciato (attraverso l’esercito, garante della nazione fondata da Ataturk) tutti i governi eletti nelle poche votazioni pluri-partitiche andate in scena nel paese dal dopoguerra in poi. Nel 1960, poi nel 1971 e infine nel 1980 tre colpi di stato rovesciarono governi che, di fatto, minavano la supremazia dell’esercito. Ancora nel 1995 (l’altroieri) la vittoria del partito islamico Refah, che aveva abbandonato l’Islam politico per farne un semplice riferimento culturale, viene contestata dall’esercito che pone un ultimatum in seguito al quale il governo si dimette per evitare un nuovo intervento dei carroarmati.

Lo stesso Ataturk aveva conferito all’esercito un potere di “garanzia” sul regime da lui fondato a seguito della caduta dell’Impero Ottomano. Quella di Mustafa Kemal era un’idea politica non dissimile, benché “terza”, al fascismo e la bolscevismo: corporativa, militare, gerarchica. E un pochetto razzista, com’era moda all’epoca: “chi non è un puro turco ha solo un diritto in questo paese, il diritto alla schiavitù” tuonava il ministro della Giustizia di Ataturk nel 1930. E Afet Inan, figlia adottiva di Kemal, studiò presso il teorico razzista svizzero Pittard e contribuì alla radicalizzazione in senso razzista del nazionalismo turco. Siamo negli anni Trenta e Kemal era ancora vivo. Nel 1937 si procedette a misurazioni antropometriche sui crani di 64mila turchi per dimostrare l’origine ariana della razza turca. Può sembrare assurdo, ma è successo. Infine il kemalismo è “laico” nella misura in cui ogni buon turco debba essere musulmano: ne consegue una vita difficile per le minoranze (aleviti sciiti, armeni, greci ortodossi, curdi).

Qui non si intende demonizzare Ataturk, sia chiaro, quanto spiegare che il kemalismo non è un’ideologia democratica, che non si radica in valori come la tolleranza e le libertà individuali, e che fino all’inizio degli anni Duemila teneva la Turchia sotto un controllo autoritario (ricordo di nuovo i tre colpi di Stato). E non s’intende nemmeno stigmatizzare le proteste che anzi, in cuor mio, osservo con speranza.

E’ ovvio che una protesta come quella in corso comprenda di tutto, ed è pure ovvio che in un paese dove i bambini alla mattina devono recitare i “detti” di Ataturk non possa far meno di produrre un culto della personalità. La domanda è: siamo sicuri sia il caso di applaudire al signor Erdem Gunduz? Contro cosa protesta il signor Erdem Gunduz? Contro Erdogan, certo, ma quale Erdogan? L’oppressore della democrazia o l’islamico anti-kemalista? Quelli che con lui protestano cosa vogliono? Maggiori libertà per tutti o la caduta di un governo islamico che a loro proprio non va giù? Insomma, il loro problema è la democrazia o l’islam politico?

Qualcuno dirà che l’islam non si concilia con la democrazia e che quindi, chiedendo le dimissioni di un governo islamico, essi chiedono di fatto la democrazia. Non è la mia opinione. L’islamismo in Turchia ha fatto parecchia strada e se, almeno fino agli anni Ottanta, i partiti musulmani vedevano nella religione il loro modello politico (come in Iran, per intenderci), oggi questo non è più vero: già il Refah aveva abbandonato l’islam come riferimento politico facendone solo un riferimento culturale. L’Akp, insomma, non è un partito di radicalisti islamici ma l’espressione di un sentire diffuso in una Turchia che vuole essere moderna senza abbandonare la religione.

A Sivas, città dell’Anatolia centrale, hanno subito preso da esempio l’iniziativa e un gruppo di giovani si è messo in piedi, silenzioso, davanti all’Hotel Madimak. Qui, nel 1993, circa ventimila salafiti (musulmani radicali sunniti) hanno massacrato trentatrè persone, tutti aleviti (musulmani sciiti) riuniti nell’hotel per festeggiare la ricorrenza di Pir Sultan Abdal, poeta medievale alevita. Anche in questo caso la protesta assume un carattere più anti-religioso che pro-democratico.

Quelle presentate qui valutazioni su cui si può non essere d’accordo, per carità, ma che vanno fatte se non vogliamo leggere la vicenda turca con l’abituale superficialità a cui il giornalismo italiano ci ha abituati.


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