Magazine Diario personale

Tutti zitti: parla il silenzio

Da Maricappi
Le mie parole sono sassi/ precisi aguzzi pronti da scagliare/ su facce vulnerabili e indifese/ sono nuvole sospese/ gonfie di sottintesi/ che accendono negli occhi infinite attese/ sono gocce preziose indimenticate/ a lungo spasimate e poi centellinate/ sono foglie cadute/ promesse dovute/ sono notti interminate/ scoppi di risate/ sono andate a dormire sorprese da un dolore profondo/ che non mi riesce di spiegare/ fanno come gli pare/ si perdono al buio per poi ritornare.
Queste non sono mie parole ma è una bellissima canzone di qualche anno fa di Samuele Bersani, cantautore bolognese, che ha saputo tradurre in poesia i suoni delle parole.
E’ vero che le parole fanno infiniti giri, si rincorrono nell’aria, rimbalzano l’una contro l’altra, articolano voli pindarici, si perdono nei sogni o si conficcano nel cuore e vagano nell'attesa d’essere comprese.Oggi la parola è usata spesso per urlare l’uno contro l’altro, si parla anche a vuoto senza comprenderne il senso, si gridano intere frasi sconclusionate, a volte non se ne comprende il significato, a volte magari si dice la stessa cosa ma è d’obbligo non riconoscerlo. Ti urlo così tu sei distratto dalle mie urla, ti lancio improperi così ti devi preoccupare di difendere le tue offese.Perché si è arrivati ad un così esasperato uso delle parole?Le parole hanno subito una tale degenerazione e un appiattimento dei contenuti sintomo di una società malata che rischia di cronicizzarsi su aspetti sempre più esasperati e stereotipati. Fanno scuola i talk-show che tanto accendono gli animi e appassionano interi popoli globalizzati attraverso la televisione di massa, programmi che fanno il giro del mondo con la stessa metodologia d’approccio: chi urla di più fa valere le sue ragioni. Fanno scuola dibattiti televisivi infuocati, discussioni pseudo- intellettualistiche, dibattiti politici incomprensibili che s’inalberano nell’etere per il bene del paese, ci dicono.Allora, muniamoci tutti di un microfono ed iniziamo ad urlare dalla finestra di casa contro i condomini che scuotono le tovaglie e le molliche di pane sui terrazzi, contro quelli che lasciano sgocciolare l’acqua dai vasi delle piante, quelli che ci sbatacchiano i tappeti sui panni appena stesi. Portiamoci una poltroncina e organizziamo un salotto nel bel mezzo di un ingorgo sulla strada che percorriamo tutti i giorni ed iniziamo ad urlare contro chi non ci fa passare, contro quello che non mette la freccia, contro chi parcheggia in seconda fila, contro chi non si ferma sulle strisce pedonali. Dotiamo i supermercati di parlatoi dove poter intraprendere discussioni animate e tra un carrello e l’altro ci si scarica di tensioni accumulate, altro che sedute di psico-terapia. Oh….!!!
E tra le corsie?
Tra le corsie noi siamo degli urlatori professionisti, abbiamo diverse specialistiche in comunicazione urlante: da due, da tre, da quattro metri di distanza, qualcuno addirittura super-dotato di tecnologia vocale si fa comprendere da un capo all’altro dei lunghi corridoi. Ci fossero olimpiadi degli urlatori il personale delle corsie, medici, infermieri, oss, sarebbero campioni assoluti come la Cina lo è nella ginnastica artistica o l’America nell’atletica o L’Italia nel calcio (mah…forse questo non è un gran paragone). Parole smesciate come sull’erba di Wimbledon, accartocciate e giocate in canestri di basket, parole scivolose come un disco di gomma sulla pista di hockey sul ghiaccio, rimbalzate tra i giocatori imbalsamati del calcio Balilla. Tutti parlano, magari per dire la stessa cosa, e nessuno ascolta l’altro, ronzii che s’inalberano sempre più in alto come la suoneria ascendente di un telefono cellulare. E nei momenti di intensa attività lavorativa il vocio diventa confusione, nervosismo crescente, agitazione generale che scuote gli animi di tutti e a qualsiasi ora,  compreso quello dei pazienti. Bisognerebbe installare un fischietto stoppatore, tipo allarme antincendio: quando i decibel superano un certo limite un fischietto ci resetta tutti. Oppure introdurre una nuova figura tra le corsie: un robot segnalatore di errori del sistema, ovvero una macchina  in grado di riconoscere le anomalie dell’equipe lavorativa e di correggerne immediatamente i difetti agendo sull’agitatore degli animi attraverso un fascio di luce pulsata (LASER-WORDS-TERAPY) che ne blocca l’attività. Individuato l’agitatore viene condannato a scontare una pena, lo decide il reparto d’appartenenza, ovviamente non messo a riposo perchè non è questo il momento d’allontanare un lavoratore che non può essere rimpiazzato, vista la carenza, ma lavorerà in regime di parola in libertà vigilata.
Sant’Agostino diceva: “ ho posto un freno sulla mia bocca”. Trovare la quiete restando zitti e fermi.
A volte è necessario tacereA volte le parole tradiscono i pensieri.Altre volte sono distratte.A volte sono silenzi, per chi ha la sensibilità di saperle riconoscere.Altre volte le parole sono gesti, cenni, segni densi di paure, o un accenno di sorriso, o un’insolita euforia che sconfina nell’irreale.
Nel nostro lavoro è facile distrarsi dal contenuto delle parole e ancor più dal contenuto del non detto tra girandole burocratiche, scartoffie da compilare, turni da coprire, caselle che non tornano, fogli da cercare, circolari da studiare. Tra noi operatori a volte sembra d’essere estraneamente invisibili, non spettatori di fronte ad una vita che scorre tra felicità evidenti o dolori profondi nascosti, a volte ci si difende da tutto ciò che può scalfire le nostre emozioni e lasciarsi andare diventa difficile. Altre volte non c’è proprio stoffa da poter rattoppare, insensibilità ruvide adatte solo per picchiettarle e farci una scalata come su una parete rocciosa, roba da regalargli una smerigliatrice per Natale nella speranza di levigare e addolcire i loro animi, privi di Magnificenza, scomodando una delle dieci virtù aristoteliane, ovvero il giusto mezzo fra volgarità e grattezza d’animo (Nicomachea-libro II).
Il non detto è ancora più importante del detto, cogliere una smorfia, una piega sulla bocca, gestualità o posture particolari, un pensiero nascosto nelle profondità degli occhi, decodificazione subliminale di messaggi celati. Il linguaggio non verbale a volte è molto più importante di quello verbale, per chi è in grado di leggerne le sfumature può rivelare molte più cose sul reale stato d’animo della persona con cui si comunica.Saper leggere le sfumature del linguaggio in tutti i suoi aspetti significa riconoscere l’altro e riconoscere pure il dolore dell’altro, saperlo sopportare, sorreggere, che è la cosa più difficile che esista.
Le mie parole son capriole/ palle di neve al sole/ un viso sordo e muto che l’amore ha illuminato/ sono mio padre e mia madre/ un bacio a testa prima del sonno /un altro prima di partire/ le parole che ho detto e chissà quante ancora devono venire…
Sssstttt….tutti zitti, parla il silenzio.

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