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Un nome per l’Europa

Creato il 22 maggio 2012 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

Un nome per l’Europadi Enrico Reggiani. Il 16 novembre dello scorso anno [2002], sulla prima pagina del Corriere della Sera – secondo un’impaginazione che lo teneva timidamente defilato verso il margine e con un carattere tipografico non esuberante, come capita a molte altre riflessioni propriamente “culturali” sull’Europa - faceva capolino il titolo evocativo (“I confini diversi d’Europa”) di un contributo di Tommaso Padoa-Schioppa, dal quale riporto un passo cruciale per il breve ragionamento che vorrei proporvi: “Nella lunga strada della sua pacifica unificazione Europa è entrata vestendo l’abito dimesso di un aggettivo declinato al femminile: europea. La dignità del sostantivo erariservata ad altre parole, come comunità, carbone, acciaio, difesa, unione. Ora il presidente della Convenzione europea, Valéry Giscard d’Estaing, propone di dare a Europa l’abito stupendo del sostantivo […]. Riflettere sulle parole qui brevemente evocate, sul loro susseguirsi nel tempo, sul passaggio da un aggettivo all’altro, da un aggettivo a un sostantivo, non è un gioco di parole; è un veicolo per viaggiare nella storia dell’unificazione europea e per entrare nel cuore stesso dei dilemmi di oggi”.

Anche senza ricorrere al latinorum del proverbiale “nomen omen” (che vale “nel nome il destino”) o del giustinianeo in versione dantesca “nomina sunt consequentia rerum” (cioè “prima si danno le cose, poi i loro nomi”), si comprende facilmente come la questione del sostantivo con cui designare l’Europa – che equivale, lo avrete certamente intuito, a quelle della sua substantia (ciò che “sta sotto” e che permane al di là delle mutevoli apparenze), della sua identità, e delle sue radici – sia cosa di non poco conto: anzi, è a tutti evidente che si tratta di un tema di grande rilievo anche perché non è nuovo, non è solo del nostro tempo smemorato, che talvolta vanta smanie di originalità non giustificate e talaltra non elabora la sua consapevolezza del passato.

Di tale questione offrono abbondante testimonianza anche la lingua, la letteratura e, più in generale, la cultura d’Inghilterra che, per designare il Vecchio Continente, dispone di almeno due risorse linguistiche autonome e storicamente differenziate, Europa e Europe (per tacer di una terza, Europ, una sorta di grado zero che vi risparmio e che pare – ma non sempre lo è – scherzo di copista o di tipografo…). In breve: la forma “classica” della prima aspira a riecheggiare i sentieri universali del Mito, facendo leva sulla propria incerta etimologia (fenicia, dunque semitica? pre-greca? greca?) ed evocando la leggenda della fanciulla rapita da Giove sotto le mentite spoglie di un toro, dalla quale avrebbero avuto origine la realtà europea e la comune esperienza dell’Occidente; la forma “moderna” della seconda tende, invece, a designare un particulare del paesaggio della Storia: beninteso, un particulare rilevante per carne e spirito, per quantità e qualità, per tradizione e prestigio, com’è rilevante quello dell’osservatore inglese che lo designa e che lo imbriglia nella sua contingenza spazio-temporale. Insomma, l’inglese che ha detto o scritto Europa potrebbe non aver condiviso – e spesso non ha condiviso – l’intenzione comunicativa di quello che, invece, ha detto o scritto Europe

La dialettica tra le due forme – che potrei definire, recuperando una formula che Giulio Busi ha impiegato in altro contesto, come “ambiguità tra favola e geografia” e che conosce anche altre gradazioni e ibridazioni oltre a quelle qui sbrigativamente richiamate – attraversa i testi della cultura inglese con esiti al tempo stesso complessi e suggestivi. Accontentiamoci di qualche esempio. Nello scrigno cinquecentesco della cultura elisabettiana, di cui solo una élite conosceva il raffinato segreto, c’era chi, come Philip Sidney, si dimenava acrobaticamente tra il precettistico “esempio della Fenicia Europa” ed il lirico “rapimento di Europe”, offrendo prova linguistica di una percezione dell’identità europea oscillante tra l’universalismo del mito ed il particularismo di un Io storico. La prima metà del Seicento vide spesso le due forme l’una contro l’altra armate: l’Europa mitica come strumento culturale e propagandistico dei sostenitori della monarchia contro la Europe dell’esperienza puritana, sospettosa del potere dell’immaginazione e sospinta dal sacro fuoco dell’egualitarismo (dunque: che tutti dicessero Europe!). E via seguitando: fino al lamento sull’ Europa dominata e violata dall’assolutismo, impersonato da Giove tiranno, che, sulla soglia del diciottesimo secolo, Defoe frantumò tra gli sberleffi in Per Diritto Divino. Una Satira; fino al desiderio romantico di pace che, nel suo sonetto On Peace, John Keats esprimeva al tramonto dell’epopea napoleonica, perché finalmente il progetto incompiuto di “Europa’s Liberty” si completasse nel “più felice destino” di una rinnovata e libera Europe; e oltre, fino ai giorni nostri. Se vale quanto detto finora, cosa mai può avere impedito che la dialettica qui sinteticamente tratteggiata – una in una miriade – minasse irrimediabilmente la substantia, l’identità e, persino, la denominazione del Vecchio Continente, e ne destabilizzasse definitivamente il difficile equilibrio tra universalità e particolarismi? La risposta a questo e ad altri interrogativi analoghi va ricercata nell’effetto profondo, diffuso e tuttora largamente inesplorato delle sue radici cristiane, che in ogni epoca, pur dilaniata e contraddittoria, hanno comunque continuato ad alimentare la memoria ed il sogno di un’”Europa vera ed equilibrata” (Hilaire Belloc). Di questo la cultura può e deve riacquisire consapevolezza, con serenità, realismo e coraggio, perché anche oggi ritrovi vigore, come ha scritto Lorenzo Ornaghi, la “capacità – davvero ‘culturale’, in senso proprio – di progettare il futuro sulla base di tutta la storia dell’Europa”.

Comunità Universitaria. Il Giornale dei cattolici dell’Università di Brescia, 7, ottobre 2003, p. 3

Featured image, Europa rapita dal toro, 1902, Berlino


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