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Un quarto di secolo: la primavera digitale del XXV Salone del Libro di Torino

Creato il 24 maggio 2012 da Alessandraz @RedazioneDiario

Pubblicato da Redazione Un quarto di secolo: la primavera digitale del XXV Salone del Libro di Torino
Come ogni anno si rinnova l’appuntamento con il Salone Internazionale del Libro di TorinoE quest’anno sono 25. 25 anni di case editrici, incontri, interventi, animazione, cultura e soprattutto…libri. Libri che, come ci ricorda il titolo del filo conduttore di quest’anno, negli ultimi tempi stanno cambiando forma, fiorendo in una controversa “primavera digitale”, accanto ai cartacei, i nostri amici di sempre, che ci fanno compagnia d’inverno, vicino al camino e alla tazza di cioccolata calda, e d’estate, sulla sabbia accanto ai racchettoni. Ora sono digitali: hanno lo schermo touch e ne possiamo avere migliaia sullo stesso supporto fisico, ma la sostanza non cambia: chi li ama, li legge in qualsiasi forma, come ci hanno dimostrato le innumerevoli realtà che convivono al Salone del Libro. Passiamo la parola agli inviati del Diario di Pensieri Persi, che hanno, ognuno a suo modo, interagito con la magica e contraddittoria realtà di questo XXV Salone del Libro.
Elisabetta Ossimoro Un quarto di secolo: la primavera digitale del XXV Salone del Libro di Torino Che dire… il Salone del Libro è nato con me, nella mia città: anch’io nascevo 25 anni fa e anche io sono cresciuta a pane e libri. Eppure ogni anno è una nuova pagina, tutta da leggere e scrivere: l’anno scorso ci sono andata come scrittrice, presentando il mio romanzo Nix, mentre quest’anno ci sono stata per la prima volta in veste di inviata e reporter per il Diario. Ho avuto modo di conoscere ospiti di fama internazionale: una fra tutti l’eterea Elizabeth Strout (edita da Fazi in Italia), scrittrice statunitense premio Pulitzer 2009, premiata in questa occasione dal nostro Paolo Giordano con il Premio Mondello 2012, che si è distinta per la sua luminosa pacatezza, umile e quasi inconsapevole del suo genio. Ho osservato con interesse le piccole realtà italiane, contraddistinte dalla passione e dal rigore con cui si prendono cura dei loro libri e delle loro attività: grande soddisfazione mi è derivata dalla videointervista che ho avuto l’onore di fare a Valeria Mastroianni, della casa editrice e agenzia letteraria Jo March. Ho assistito all’ingresso al Salone delle Print on demand, altra grande novità resa possibile dal sempre maggiore potere della stampa digitale e del self publishing. Un quarto di secolo: la primavera digitale del XXV Salone del Libro di Torino Ho scherzato con i simpatici e giovanissimi autori fantasy della casa editrice Casini, Paola Boni e Mario De Martino, che alla scrittura veicolano un universo di immagini e giochi di ruolo, trasformando il libro in un iperlibro, un’esperienza letteraria e visiva a 360 gradi. Ho incontrato Valentina Coscia, scrittrice emblema delle nuove tecnologie, pubblicata nel solo formato digitale dalla WePub. Ho partecipato a dibattiti sull’editoria a pagamento (in particolare quello organizzato dalla casa editrice Zero91) e sulle ragioni per cui sempre più Italiani scrivano e pretendano di pubblicare, a fronte di un’altissima percentuali di Italiani che leggono meno di un libro all’anno. E, come al solito, ho visto la gente, assiepata negli stand dei grandi editori, dimenticarsi di visitare quelli dei piccoli editori, cui dovrebbe essere riservata maggiore attenzione.
Un quarto di secolo: la primavera digitale del XXV Salone del Libro di TorinoE poi ho ballato al ritmo di Zumba Fitness allo Stand della Nintendo e ho ascoltato i miei amici musicisti provare le arpe, le tastiere, le chitarre, la batteria e addirittura la spinetta nel padiglione 1, dove sono stati allestiti degli stand dedicati alla musica, in cui i libri si aprono al suono, consentendo ai visitatori di avvicinarsi ad un orizzonte culturale ancora più ampio. Insomma, un Salone delle contraddizioni, in cui queste realtà convivono, cozzano e, nel migliore dei casi, dialogano. Ed è sempre un piacere, ogni anno, essere testimone della fluidità culturale che pulsa nelle vene di questa manifestazione, nel bene e nel male. Roberto Gerilli Prima volta al Solone del Libro e il primo impatto è stato degno di quello di Pinocchio nel paese dei balocchi. Ho girato, parlato, comprato e mi sono anche perso. Superato l'entusiasmo iniziale, ho avuto poi modo di osservare meglio i visitatori e i padiglioni. Per quanto riguarda i primi, sono rimasto sorpreso dalla grandissima quantità di giovani che sciamavano tra gli stand. Alcuni erano lì solo per "farsi un giro", ma altri (molti) partecipavano agli incontri, chiedevano consigli di lettura e acquistavano libri. In una nazione notoriamente poco incline alla lettura, le nuove generazioni sembrano promettere bene. Passando a parlare degli espositori, bisogna innanzitutto dire che basta un’occhiata per notare la differenza tra i colossi dell'editoria e le piccole realtà. I primi si sono presentati con stand monolitici contenenti l'intero catalogo, i secondi con "bancarelle" adatte a stento a un mercatino dell'usato. Strategie differenti dettate dalle diverse disponibilità finanziarie, ma, a mio avviso, accomunate da scarsa organizzazione. Che senso ha metter su uno stand più grande di una libreria media per vendere i libri del proprio catalogo a prezzo intero? Siamo nel 2012 e bastano pochi click per comprare i romanzi via web e farseli spedire a casa senza costi aggiuntivi. Perché io, visitatore, dovrei pagare il biglietto della fiera per poi comprare libri a prezzo intero? In contrapposizione ci sono le piccole case editrici, che si sono limitate a stendere sul bancone le loro ultime novità nella speranza di farsi conoscere. A questo punto non sarebbe più sensato risparmiare gli ingenti costi di affitto dello spazio e indirizzare il capitale verso strategie di web marketing et similaGeneralizzare è sempre uno sbaglio e devo specificare che alcune case editrici sono riuscite a distinguersi per la loro ottima organizzazione, ma l'impressione generale che ho avuto e stata quella di una colpevole mancanza di modernizzazione. Il mondo dell'editoria sta cambiando e, da quanto visto al Salone di quest'anno, le case editrici italiane non sono pronte. Non ci resta che confidare nei lettori. Alessia Barbaresi Può sembrare strano che un’accanita lettrice non sia mai stata al Salone del libro di Torino, ed è ancora più strano se si pensa che l’accanita lettrice in questione è anche una traduttrice. Così, questa venticinquesima edizione del Salone è stata per me la prima. Se da un lato è stato molto affascinante vedere riunita tutta l’editoria italiana e vedere montagne di libri tutte insieme (cosa che dà sempre un brivido di piacere al lettore compulsivo), dall’altra è stato piuttosto deludente constatare il fastidio con cui molti esponenti delle suddette case editrici hanno reagito quando mi sono presentata a loro come traduttrice. Il Salone del libro non dovrebbe essere un luogo in cui gli editori vengono a contatto con altri professionisti del settore, di cui fanno parte anche i traduttori? Non è forse vero che più della metà dei titoli pubblicati dall’editoria italiana sono stranieri e, quindi, tradotti? Ergo, gli editori vivono del lavoro dei traduttori, ma pare gli faccia comodo far finta di ignorarlo, perché i traduttori in Italia sono troppi si dice (e probabilmente è anche vero) e perché i traduttori che si presentano al Salone ci vanno in cerca di lavoro, cosa che al giorno d’oggi pare sia disdicevole. Mi correggo, perché non ho l’arroganza di voler parlare per gli altri: io sono andata al Salone del libro in cerca di lavoro, o meglio in cerca della speranza di venire contattata per fare una prova di traduzione, che è ben diverso dall’ottenere un lavoro. Il più delle volte mi sono sentita rispondere in tono scocciato che il curriculum dovevo presentarlo via mail (come se qualcuno si degnasse di leggerlo sul serio) e allo stand di una nota casa editrice, che per inciso pubblica tantissimi libri tradotti, mi sono sentita dire da uno degli “Editor in Chief” che: «Se vuoi il CV puoi mandarlo a me che lo giro poi a chi di dovere, ma ti dico già da ora che hai poche possibilità». Grazie. Sono rimasta profondamente delusa dal comportamento di molti degli espositori, che mi si sono avvicinati per chiedermi se stessi cercando un libro in particolare e, quando rispondevo che sono una traduttrice, cambiavano espressione e diventavano all’improvviso scostanti. Ragazzi, parliamoci chiaro: un lettore forte, un lettore accanito come me, non ha bisogno di pagare 10 euro per entrare al Salone per acquistare dei libri. Per questo esistono già le librerie in cui, udite udite, si può entrare gratuitamente! Perciò mi lascia davvero stupita tutta quest’ansia di voler solo vendere libri. Mi lascia perplessa il fatto che in pochissimi abbiano mostrato quanto meno un briciolo di curiosità, di voler parlare cinque minuti con una persona che lavora (seppur da poco e non pagata nonostante il contratto) per una casa editrice e che, quindi, produce profitto per l’editore. Non è forse vero che io offro all’editore un servizio di cui ha bisogno? A onor del vero, devo spezzare una lancia a favore di case editrici più piccole o nate da poco, che invece mi hanno trattata con gentilezza e le voglio citare: allo stand di 66thand2nd e di Delvecchio Editore sono stati molto gentili. Magari il mio curriculum non lo ha letto nessuno; magari lo avranno cestinato quella sera stessa, ma se non altro si sono presi la briga di perdere tempo a parlare con me trattandomi con rispetto, particolare che al giorno d’oggi, a parer mio, non è di poco conto. 
Durante la giornata che ho passato al Salone, ho avuto la fortuna di assistere a una conferenza sulla traduzione organizzata da Ilide Carmignani. Ospiti della conferenza erano altre due grandi traduttrici: Franca Cavagnoli e Elena Loewenthal, che presentavano rispettivamente un saggio sul mestiere del tradurre (“La voce del testo” pubblicato da Feltrinelli) e la traduzione di un romanzo di un autore francese (“La vendetta del traduttore” di Brice Matthieussent pubblicato da Marsilio e tradotto per l’appunto da Elena Loewenthal). È stata una conferenza molto interessante e con un altissimo potenziale formativo. Dico potenziale perché, purtroppo, l’incontro è durato appena un’ora (la sala doveva essere liberata per un’altra conferenza) e, proprio perché più della metà dei titoli pubblicati dalle case editrici italiane sono testi tradotti, mi sarei aspettata che una conferenza del genere trovasse più spazio all’interno del Salone. Dopotutto non capita tutti i giorni di poter ascoltare le esperienze e le riflessioni di tre grandi professioniste quali sono la Carmignani, la Cavagnoli e la Loewenthal, che traducono alcuni tra i più grandi scrittori viventi e che sicuramente hanno molto da dire sul loro mestiere in termini di metodologie personali di approccio al testo da tradurre. Liquidare la questione in sessanta minuti, secondo me, è far finta di voler veicolare cultura. Ma tant’è. Mi aspettavo altro dal Salone. Mi aspettavo più spazio per la cultura e più spazio per allacciare rapporti professionali. Ho trovato tanto spazio per il commercio dei libri fine a se stesso. Giulia Marengo Un quarto di secolo: la primavera digitale del XXV Salone del Libro di Torino Decima volta al Salone del Libro di Torino. Dieci anni di trepidazione, in coda al cancello.  Dieci anni a inspirare la prima boccata d'aria intrisa di carta, inchiostro, sogni e speranze. Ma qualcosa, nella bolla di fascinazione che provavo, si è incrinato. Forse è l'età, forse è il fatto che per il primo anno mi sono trovata “dall'altra parte”. Quella degli autori. E il velo di perfezione che ammantava la manifestazione è un po' scivolato, lasciandomi intravvedere ombre che una volta ignoravo. C'era tanta, tantissima gente, al Salone. Nonostante il caldo torrido di sabato pomeriggio, pochi hanno preferito fuggire al mare. Il Lingotto era gremito di gente. E se, da una parte, mi ha fatto piacere salutare e anche conoscere molti nomi – colleghi scrittori, blogger, amici e collaboratori, l'assenza di molte case editrici minori mi ha fatta riflettere. Certo, i costi ingenti necessari a presenziare al Salone hanno pesato, quando si è trattato di decidere. Ma quanto dipende dalla visibilità che, inevitabilmente, i colossi dell'editoria si accaparrano? Certo, gli stand erano tanti e molte piccole case editrici hanno voluto esserci, esserci comunque. Con entusiasmo, per dimostrare che la crisi, tutti insieme, la si può superare.Tuttavia, una riflessione diventa necessaria: la folla si ammassava negli stand più grandi, quelli dei soliti noti. Accapigliandosi per arraffare quegli stessi, presunti fenomeni editoriali stranieri che troverebbe senza alcun problema in qualunque libreria sotto casa. Con assai meno fatica. E allora, mi domando, qual è il vantaggio del Salone? Non andare a caccia di piccole meraviglie e perle nascoste, a quanto pare. E' vero che da nessuna parte è possibile ingozzarsi di volumi quanto al Salone del Libro di Torino. Ma gli scrittori stranieri vendono comunque, anche senza aver puntati i riflettori. E quindi, visto che si tratta di una fiera squisitamente italiana, perché non lasciare più spazio a tutti quei talentuosi autori del Bel Paese, che tanto faticano a ritagliarsi uno spazio in un mercato dove gli stranieri la fanno un po' da padrone? Le penne tutte italiane sono tante e molto valide. Forse è arrivato il momento di scommettere anche su di loro. Andrea Veglia Al Salone del Libro non si vanno a vedere i libri dei grandi editori, anzi: forse non si va per vedere libri affatto. Vedere file di persone assiepate agli stand dei grandi gruppi ti fa venire voglia di prendere qualcuno per la giacca e chiedergli: “Ma tu lo sai chi sta parlando in quella determinata sala?”, oppure “Sai chi sta parlando in quel dato stand?”. La maggior parte della gente non va agli incontri con gli autori, non parla con gli editori, ma vagola senza meta nel Lingotto. Una veloce menzione ai piccoli editori: è vero che molti piccoli editori non c'erano, ma sinceramente, anche aggirandomi brevemente nell'Incubatore, non ne ho affatto sentito la mancanza. So di essere snob in questo, ma ritengo che in Italia si scriva troppo e, soprattutto, che si scrivano cose non necessarie. Mancano libri come quelli di Cercas (ne parlerò dopo), che riaprano i conti con il nostro passato e con la nostra storia, argomenti con cui l'Italia sta appena iniziando a fare i conti.  Accanto a questi spaesati c'è il pubblico che ti fa sentire che la cultura in questo paese non è ancora morta: fa piacere vedere una nutrita folla che va a sentire Cartarescu. Tra parentesi, la Romania, accanto all'agguerritissima Spagna, è stata forse considerata meno di quello che avrebbe meritato. E tuttavia, ancora più piacere ha fatto vedere una coda chilometrica per assistere alla lectura Dantis di Carlo Ossola. Javier Cercas ha parlato del proprio passaggio, intorno al 2000, da una scrittura post-moderna ad una civile, che metta a nudo i nervi scoperti della memoria collettiva spagnola: la guerra civile, il golpe di Tejero, la crisi attuale. In un colloquio tra il divertito e il serio, ha paragonato Zapatero ad un misto tra Maria Teresa di Calcutta e Pericle. Una simpatia folgorante.
La tavola rotonda tra Cercas, Sepúlveda e Almudena Grandes ha messo in rilievo il ruolo della casa editrice Guanda e del suo direttore editoriale, Luigi Brioschi, nel garantire contatti intellettuali e letterari tra mondo italiano e quello spagnolo. Contatti che esistevano prima di internet, in una "repubblica delle lettere" (Guanda in Italia e Tusquets in Spagna) che cammina ancora benissimo senza troppe tecnologie. La conferenza metteva un accento polemico sul fenomeno, soprattutto americano, del self-publishing: l'editore è ancora necessario, è la figura che garantisce con il proprio nome la qualità di ciò che viene pubblicato. E, a proposito dello scrivere in spagnolo, bellissime le parole della Grandes: quando io scrivo nella mia lingua, nella stessa giornata so che qualcun altro lo sta facendo dall'altra parte del mondo.
Il Salone del Libro, poi, essendo un evento in cui si accavallano almeno 15 conferenze, va scoperto un po' sul momento: lo si può programmare, ma poi l'occhio cade su una conferenza a cui non si era preventivato di andare. Mi è capitato con la lectio sulla nuova traduzione dell'Ulisse di Joyce. Il succo era che, invece di liquidare la storica traduzione di De Angelis, quella commissionata da Newton&Compton, le si affiancherà: l'opera di Joyce ha talmente tanti livelli di significazione da non poter essere trasposta in un'altra lingua in una traduzione sola. I colossi Amazon e IBS hanno fatto da padroni per quanto riguarda la tanto agognata Primavera Digitale. I dubbi sorgono sul continuare ad interrogarsi se il libro digitale abbia o no futuro: è come interrogarsi su qualcosa già in essere, di cui va preso atto senza troppe filosofie. Mi sono trovato alla presentazione di un libro (lasciamo l'anonimato) che pretendeva di togliere la terra dai piedi dei critici, fornendo al lettore tutte le fonti che l'autore aveva usato per la ricostruzione storica. Fin qui tutto molto interessante. Ma, quando si è prospettato di rendere il libro un prodotto multimediale con tanto di video, fotografie, musica ed effetti, la domanda è sorta spontanea: la lettura dovrebbe sempre implicare uno sforzo di immaginazione da parte del lettore, o no? E sarebbe ancora un libro se qualsiasi suggestione fosse fornita bella e pronta? Un Salone dunque in gran forma, ma di cui non è chiaro il tema. Primavera digitale non fiorita.


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