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…una poesia senza parole. Erano pensieri di dolore…

Creato il 11 ottobre 2011 da Cultura Salentina
bacio

Max Klinger, IL BACIO DELLA SIRENA (1895)

di Lele Mastroleo

Torna a contarmi le stelle dal bosco vecchio, rimbocca la luna dietro le mie mani, agita le nuvole per farne tempesta, risolleva anche l’inferno ma rimani qua. Scrivi il tuo nome con il coltello grande sulla mia pelle, fallo scivolare sino in gola e spingi con tutta la forza sino a che non mi sentirai tuo, carne e sangue”, le disse il Capitano mentre nudo sul letto cercava la tabacchiera.

Devo andare, mio Capitano, domani dobbiamo tornare alle Larghe e il viaggio, lo sai, è lungo. Poi le tue mani danzano troppo nel buio e la luna questa notte è tornata a farmi paura e non vorrei che mio padre vedesse le mie lacrime farsi angoscia e dolore. Non vorrei che capisse che il suo Capitano è l’amante di sua figlia”.

Il capitano si rivestì in fretta. Mise con cura solo un sigaro tra le labbra e uscì sul balcone a fumare. Sedette a gambe larghe sulla sedia e affondò lo sguardo dritto all’orizzonte. Passavano in disordine le sensazioni e le emozioni di quella giornata e i ricordi attaccati con lo sputo alla sua pigra memoria. Figlio di mare e fratello di mare, nient’altro che una vita sottosale la sua. E una vita che era solo volti e braccia dei mille e mille uomini delle più svariate tipologie e razze, imbarcati con lui verso rotte che solo chi pagava teneva a mente. Mercenario delle onde, così amava definirsi, mercenario di legno, mercenario di fasciame. Fascio di carne salata e consunta dalle buriane e dalla tormenta. Ma il legno galleggia da solo,s i ripeteva fra sé e sé, e non fa ruggine. Era quel sentimento comune dei marinai. Quell’estremismo della immortalità, quel potersi perpetuare all’infinito come corrente di fronte allo Scoglio della Serpe. Lui era morto milioni di volte e milioni di volte era tornato alla vita. Morte e vita, vita e morte. Buriana e bonaccia. Tormenta e cielo terso. Come uno stizzito fendente del pugnale sulle vene. Ma lui era di legno, e solo i tarli di quello strano rapporto con Munira riuscivano a cariarlo.

A Santu Nicla rifaranno la processione al mare, i Venetiani hanno mandato una statua dellu Santu in segno di pace, una statua di legno di cedro e di oro, vogliono riprendere i rapporti di buon vicinato interrotti dalla guerra. Potrei invitarti sulla mia barca e dire a tuo padre che ci saranno anche i miei parenti. Invece saremo soli e magari potremmo prendere una rotta diversa da quella della processione e passare una giornata da soli. Ti prometto che allo scurire sarai di ritorno a casa da tuo padre”, disse il giovane con le tempie in allarme, pronte a scoppiare ad un suo rifiuto.

E’ una bellissima idea, amore mio, potrei dire a mio padre che alcune ragazze di Idro vengono con noi, anche perché vorrei conoscere qualcuno della mia età del posto per fare amicizie. Per poi, invece…”, non fece in tempo a finire la frase che le grida che provenivano dalla casa si erano impossessate dei muri, delle tende, delle finestre e si erano tuffate rimbalzando sugli ailanti sino alla discesa della Ntiricata e da qui finite in mare.

Munira, vostro padre si è sentito male mentre era a cavallo e non ha fatto in tempo a tornare a casa. Piccola mia, luce dei mie anni, fatevi forza. Siate più forte del vento che scuote le navi, siate radice antica, diventate roccia di scoglio e luce di faro, vostro padre non c’è più. Ha smesso il fiato della vita per vestire l’abito della nera morte e diventare guerriero delle anime”, queste furono le parole di Selma la vecchia badante di suo padre e prima ancora di sua madre. Selma che aveva le mani di bambina e le rughe delle querce e il sorriso di Medusa. Cent’anni o solo dieci chi poteva dirlo o forse solo l’ectoplasma femmineo della bontà. Selma era il segreto stesso della sua età e la custode dei segreti di Munira.

A quelle parole il Capitano rientrò nella stanza e cercò di abbracciare Munira, ma la ragazza lo respinse e si mise a correre forte urlando delle parole a lui sconosciute.

Cosa ha detto?”, chiese il capitano a Selma che tremava e si mordeva le labbra quasi volesse cancellare quelle frasi dalla mente e quasi potesse con il suo dolore espiare il dolore di Munira.

La nera signora ha sbagliato porta. La signora della morte avrà un angelo in più questa notte, ma la nera signora avrà un pensiero in più da scontare in questa nera notte” – spiegò tra le lacrime l’anziana governante -“è una antica strofa dei Veda con la quale si sfida la morte. Corrile dietro, mio Capitano, non vorrei che facesse qualcosa di terribile”.

Il Capitano si precipitò immediatamente fuori a quell’appello di Selma. Corse a perdifiato per la via delle Scale, passò accanto al vecchio molo urlando a squarciagola il suo nome e si diresse verso la cattedrale di Santu Nicla, per poi ridiscendere il vicolo della Ficara, e finalmente appena svoltò sulla balconata del Vecchio Moro la vide scorgersi, con le mani sul viso come se volesse capacitare tutte le lacrime, dalla balaustra per sentire quel vento largo sferzarle per una volta ancora le gambe e le braccia e insinuarsi tra le vesti sino a ritornare sul collo quasi stesse imitando i passi della taranta. Il capitano le cinse i fianchi e la spostò da quel punto pericoloso della facciata di Porta a Mare e l’abbracciò con forza per convincersi che fosse ancora viva. Lei aprì il suo sguardo di Venere ferita ad incrociare lo sguardo di lui che tratteneva a fatica il pianto. All’improvviso la sua giovane età prese il sopravvento e le sue labbra cercarono quelle del Capitano. Si baciarono in un tenero silenzio, come mai avevano fatto. Dopo si sedettero sullo scoglio del Vecchio Moro e con le mani che accarezzavano le mani dell’altro, guardarono aldilà di quel triste presente e di quelle ore di morte.

-“Non smettere mai di amarmi”, – disse la ragazza – “anche quando la mia giovinezza sarà solo un lontano ricordo”.

Il capitano le chiuse la bocca con un dito e le impedì di continuare. Le prese il viso tra le mani e accarenzandole una guancia le sussurrò a voce molto bassa, quasi non volesse essere sentito:

ca pe nu sulu mumentu de l’occhi toi me arderei viu“…

Arrivati al bosco del Purifìco posavamo le bisacce per terra e iniziavamo a scavare. La terra argillosa e friabile si apriva immediatamente sotto i colpi sapienti delle picozze e delle gravine di Mesciu Totu e sotto i rapidi gesti in levare di Cicettu Ttroi e di noi tutti che con solerzia e tempestività sollevavamo vangate di quel rosso miracolo figlia e madre della natura. Ne facevamo montagnette a riparo della trincea che stavamo scavando e tra le rughe arse di sassi e linaria vi nascondevamo dei cannoncini e delle mezze colubrine. Lasciavamo fuori solo il necessario per farle ricordare e per poterle usare alla bisogna.

Da quando era finita la guerra con i Venetiani, il duca re per non far trovare un’altra volta impreparata la città, come era già successo, per quella debolezza che provocò tanti lutti all’inizio di quella contesa e che fece pendere l’ago della bilancia della vittoria per parecchi mesi a favore dei mori, decise che tutt’attorno alle mura di cinta venissero scavate delle gallerie e delle buche e venisse allestita una difesa con cannoni e altro, allo scopo di guadagnare tempo all’occasione. Dopo aver lavorato a quella trincea che dal bosco portava sino alla Torre della Santa, vicino alla Fraula, vicino a quella insenatura dalla quale, nelle giornate di vento largo, il mare gioca a rincorrere le proprie onde e salta sugli scogli come un ballerino ubriaco sino a tornare esausto a tagliare la costa con l’alta marea e a donare alla spiaggia, sorella spettatrice, regali meravigliosi, tra stelle marine e  carapaci, tornavamo in paese con la speranza che lu Bbinu avesse preparato la cena.

Riponevamo gli attrezzi nella suppina della vecchia Torre e dopo esserci rinfrescati alla fontana sotto casa di Ndeddha, entravamo all’osteria con addosso una fame spaventosa e sedendoci al tavolo accanto al camino spento aspettavamo che la Saia, la nipote di Bbinu, arrivasse e portasse da bere come era abituata a fare ormai da anni. Da quando la guerra le aveva portato via la famiglia, cane e maiali compresi, e aveva trovato servizio alla bottega dello zio Bbinu, fratello della sua povera madre.
Passavano i minuti e nessuno aveva mosso un dito in quell’osteria e nessuno si era avvicinato al tavolo per chiedere una qualunque cosa, per spiegare cosa stava succedendo o magari uno scherzo organizzato da qualche amico o dallo stesso oste. Mi veniva, in quel momento, una strana impressione. Un sapore intenso di dolore. Una coperta nera che racchiudeva il cielo, quella sera, e ripeteva ad alta voce nenie lente di chiangimorti, di prefiche intarsiate come legno del Libano. Come versi distratti da cantare alla luna. Vedevo di fronte al mio tavolo seduto con la testa tra le mani, il Capitano, con davanti alla faccia un bicchiere di vino ancora pieno e con il respiro rotto da bestemmie mortificatorie e da scuotimenti improvvisi del capo.

La notizia della morte del padre di Munira arrivò al nostro tavolo e un rispettoso silenzio si impossessò delle nostre corde vocali e quello stesso silenzio ci mise una mano al collo minacciandoci di stringere forte se avessimo iniziato a fare domande o a sentenziare con parole inutili quel dolore.

Prenditi tutti i saluti e tutti gli abbracci che ho avuto da mio padre e dai miei fratelli, Iddio del mare e della morte nera. Chiudili dentro un sacco e fanne un solo momento. Fanne un solo attimo ancora. Un unico secondo nel quale mi darai l’anima del padre di Munira per fargli quell’unica domanda che non ho mai avuto il coraggio di fare. Posso amare per l’eternità e con la tua benedizione quel frutto del tuo sangue, quella meraviglia della creazione, quel faro alle mie rotte, quella vela di trinchetto che spinge le mie braccia? Posso amare sino all’ultimo passo delle mie gambe e dopo ancora e ancora dopo, tua figlia? E se così non fosse, bruciami l’anima, Iddio dell’amore e delle passioni, mandami l’angelo della morte a squarciarmi la gola e portami nell’oblio più scuro affinché non rimanga neanche un accento del mio nome!

Erano pensieri di dolore e di rabbia fina, come la nebbia che avvolge le mattine dietro lo scoglio del Mungurune sino alla tagliata della Grotta del Diavolo, quella nebbia che non sa più di terra e di salmastro ma mischia il profumo dell’umidità e della papaverina e si sente per tutta la pianura quell’incedere lento della lumaca e del tarabuso. E si riconoscono finalmente sotto quella coperta inusuale tutte le sfumature macabre delle delusioni, della santa pazienza e del disincanto di quella terra del sale che emana sdegno alle luci dell’alba ma che ricasca nel sonno alla controra quando le ombre rimbalzano nei piatti. Erano pensieri di dolore e di rabbia fina, come le ore nella meridiana della Torre di Mezzo, quando finisce la giornata divorata a sudore e conci, o a sudore e badile o nel ritmo severo in battere delle reti che tagliano le mani e spaccano le braccia, quando finisce la giornata e non ti rimane nemmeno una bestemmia e ti ritrovi qui a scambiare tutti i sogni con dei bicchieri di cantina e mesci ancora tra il sangue vivo quella litania a memoria del nulla eterno e della miseria.

Dove sei Iddio della terra fertile, che ci hai insegnato il ritmo frenetico della taranta e dello scorpione ma ci rimetti nei cassetti i pugni serrati la notte quando fai calare le lunghe ombre e la disperazione? Dove hai messo le mani dei titani che scolpirono le nostre coste e le riempirono di grotte e di ripari per le rotte delle nostre navi e dove hai nascosto quel vento di libeccio che accompagnò i nostri padri e le nostri madri sino a quest’angolo di mondo tra due mari, sino a renderlo così fertile e ospitale?

Erano pensieri di dolore e di rabbia e era per questo che mi alzavo dalla sedia dietro al camino spento e giravo leggermente lo sguardo fino ad incrociare quello del Capitano che mi riconosceva e sollevando lievemente le labbra mi chiedeva:

Hai mai visto le sirene di questo maledetto lembo di terra, Mecu? Hai mai sentito quanto il loro canto assomigli al nostro dolore, quanto possa assomigliare a tutti i nostri pensieri…?“.


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