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Una religione pagana per il Marzemino

Da Trentinowine

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Condoglianze al Marzemino scrivevo in un post di qualche giorno fa. Immaginavo potesse finire lì. Anche perché di queste cose si è già scritto molto e spesso ci si è ripetuti. Osservo, però, che quel post ha riacceso il dibattito fra i nostri lettori. E allora provo, di nuovo, a tirare le file di alcuni ragionamenti.

Intanto per dire che il Marzemino, così come il Teroldego, oggi, del resto come ieri, sono varietà esiliate nella riserva indiana dell’autoctonismo trentino: insieme costituiscono circa il 10 % delle aree coltivate, circa 1000 ettari (tanto per dare l’idea: Pinot Grigio e Chardonnay occupano poco meno di 5500 ettari). Una percentuale di impianto che rappresenta perfettamente anche la quantità di uve prodotte. La vendemmia abbondante del 2013 (poco meno di 1 milione e 400 mila quintali di uve incantinate) è stata archiviata con 38 mila quintali di uve Marzemino e 100 mila quintali di uve rotaliane. Questo per dire che stiamo ragionando su numeri davvero molto risicati, al limite dell’insignificanza, cui è difficile immaginare, stando così le cose, di poter affidare una funzione di rappresentanza o di ambasciata territoriale. Insomma stiamo parlando del nulla. O quasi.

A parte questo, proviamo insieme ad approfondire i numeri, che traggo dall’ultimo dossier prodotto insieme da Camera di Commercio e Consorzio Vini (2011). Le campagne vitate a uve Teroldego, varietà fra l’altro molto generosa dal punto di vista produttivo sono circa il doppio (700 ettari) rispetto a quelle coltivate a Marzemino (300 ettari). Tuttavia nel corso degli ultimi 30 anni queste varietà hanno avuto una diversa evoluzione. Mentre le coltivazioni della bacca rotaliana sono rimaste pressoché stabili, segnando anzi un lieve decremento percentuale (dal 7 al 6,2 %, delle aree vitate), le aree destinate alla coltivazione del Marzemino, in Vallagarina, sono cresciute oltre il 100% (dall’1,6 % al 3,5 %).

Quindi, con il Marzemino qualcuno ci ha provato: nuovi impianti, nuovi, e a volte eccellenti, interpreti. Mi vengono in mente alcune bottiglie topiche: il Marzemino maschio e terroso e veritiero di Letrari (Marzemino Selezione), quello elegante e affilato dell’insolita partnership Cantina Sociale di Isera – Ruggero de Tarczal (Vignetti), quello medicamentoso e grasso di Eugenio Rosi (Poiema). E mi fermo qui, chiedendo scusa a chi, per brevità, non ho citato.

A suo tempo, negli anni Ottanta, i produttori tentarono anche la strada del Consorzio di Tutela, finito come è finito all’inizio degli anni Duemila: per poca convinzione, e strategie differenti, degli attori industriali, Cavit e Concilio. Le numerose Cantine Sociali lagarine, tuttavia, al Marzemino hanno provato a crederci: sino ad oggi questa varietà, tutto sommato, ha goduto di una remunerazione allineata ai prezzi medi riconosciuti ai conferitori. In alcuni casi – e per ragioni diametralmente opposte – si raggiunge ancora un prezzo di 100 euro a quintale (Sociale di Ala e Sociale di Isera). La media si attesta attorno ai 70/75 euro. Poi resistono i “progetti speciali”, con remunerazioni slegate dalla produttività del vigneto e ancorate, invece, al principio virtuoso della resa/ettaro. Infine remunerazioni senz’altro antieconomiche, 30/50 euro quintale, che penalizzano le zone considerate meno “vocate”. La storia recente del Marzemino, insomma, è stata una storia di espansione, seppure zoppicante, ma pur sempre di espansione e di tentativi.

Oggi le cose stanno cambiando. Le cantine sociali, a cui non fosse altro che per ragioni di peso numerico, tocca di tracciare la rotta, usando la leva della remunerazione zonale, puntano ad una riduzione drastica delle aree destinate alla coltivazione della bacca lagarina. Una politica di contenimento, che tuttavia si muove a senso unico: da una parte penalizza fortemente gli impianti esclusi dalle due micro zone riconosciute come “vocate” (Isera e Ziresi), e dall’altra si guarda bene dallo stimolare una stagione di nuovi impianti nelle medesime aree. Obiettivo: tornare indietro, alle quantità degli anni Ottanta e ad una produzione dimezzata rispetto ad oggi. Salvando capra e cavoli. 

E’ il mercato signori, dice qualcuno. Anzi tutti. Il Marzemino è un vino terroso e selvatico, difficile da spiegare. E quindi poco apprezzato al di fuori dei confini lagarini, con qualche raro estimatore in Lombardia, in Veneto, in Emilia e nella Bassa Germania, spiegano i sacerdoti dell’industria trentina del vino. Già, il mercato. Il totem monoteista del mercato. Una depravata enoteologia commerciale che si fonda sull’idea dell’unitarietà e unicità indissolubile della divinità mercantilistica: il Mercato è Uno. Solo. Ovvero quello della GDO e del palcoscenico internazionale addestrato al Pinot Grigio.

E invece il mercato è Uno e Trino. E anche di più. Il mercato, anche quando è vissuto come un atto devozionale, può essere agito e sperimento come una pratica pagana e politeista. Certo è più facile e più comodo, dentro una visione industrialistica e omologativa della realtà e dell’economia, adorare servilmente un solo Signore. Ma questa unilateralità monoteista si traduce in una diminuzione irrimediabile della libertà individuale; significa rubare lo scettro del libero arbitrio all’uomo produttore, per consegnarlo alla indifferente divinità mercantilista. Al contrario il Marzemino, come tanti altri vitigni e come tante altre cose di questo mondo (compreso me), per sopravvivere ha bisogno di indagare fra le pieghe di un mercato plurale. Ha bisogno di una religione mercantile sì, ma politeista. Ha bisogno di scegliere a quale divinità immolarsi e a quale mercato essere devoto. Ha bisogno di selezionare, fra tanti, il consumatore che vuole, e può,  sedurre. Ma i sacerdoti feticisti del mercato Unico e Uno, non ammettono eresie. Nemmeno, e soprattutto, quando sono eresie territoriali.

Buon anno a tutti

Cosimo Piovasco di Rondò  

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