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USA vs ISIS: «Non abbiamo ancora una strategia»

Creato il 26 maggio 2015 da Danemblog @danemblog
(Uscito sul Giornale dell'Umbria del 26/05/2015)
A fine agosto 2014, quando lo Stato islamico s'era già preso un bel pezzo d'Iraq, Barack Obama andò in conferenza stampa a spiegare le ragioni dell'inizio dei bombardamenti contro il Califfato, ammettendo di non avere ancora una strategia. Ora siamo allo stesso punto, tanto che la scorsa settimana l'ex segretario alla Difesa Robert Gates (segretario sia nell'era Bush junior che con Obama), ha ripetuto in tv: «Non abbiamo una vera strategia. In pratica stiamo facendo questa guerra giorno per giorno». È vero, nonostante siano passati nove mesi ─ e migliaia di raid aerei della Coalizione US-led ─ non c'è ancora una pianificazione per combattere lo Stato islamico: si vive alla giornata, si seguono le vicende e in virtù di quelle si fissano gli obiettivi.
Viene da ridere a pensare che un paio di mesi fa il New York Times scriveva un articolo su un piano per riconquistare la “seconda” capitale irachena, Mosul (la più grande città in mano all'IS), da cui domenica 29 giugno di un anno fa Abu Bakr al Baghdadi annunciò al mondo di essersi autoproclamato il nuovo Califfo. Un'idea ambiziosa che sarebbe dovuta diventare un'operazione reale in questo mese, ma stante i fatti che arrivano dal campo resterà ancora un'idea per un po'.
In un'intervista al magazine americano The Atlantic, il presidente Obama incalzato sulla guerra d'espansione che lo Stato islamico sta portando avanti, ha detto: «Non stiamo perdendo. Siamo soltanto all’ottavo mese di una campagna che come ho annunciato durerà per anni». Notare che il "durerà anni" era un mantra ripetuto più volte la scorsa estate, anche per giustificare il "We don't have a strategy yet". Il Wall Street Journal s'è divertito a fare del sarcasmo facile facile: «Se questo è vincere, chissà allora come sarebbe perdere».
L'intervista di Obama, usciva lo stesso giorno in cui lo Stato islamico annunciava dalla Siria di aver preso il controllo di Palmyra, la città del cui patrimonio Unesco s'è parlato con tanta rapidità quanto cacofonica vuotezza, presi dall'istinto della notizia ─ lo Stato islamico ha mostrato di aver un approccio bipolare ai tesori archeologici che controlla: in passato ha distrutto siti che considerava forme di idolatria, ma al piano ideologico ha spesso abbinato la pragmatica del “dio-denaro”, facendo cassa con i reperti venduti sui mercati di contrabbando. Palmyra è molto di più della “Venezia delle sabbie” che i media descrivono. Palmyra è un nodo geopolitico per almeno tre ragioni, per questo conquistarla era frutto di una strategia dell'IS ─ anche se Obama dice che il Califfo ha solo “tattica”, cioè pianificazione a breve termine e non “strategia”, che ha traguardi più lunghi e ampi (salvo poi che a quanto pare lui non ha né l'una né l'altra).
Il primo aspetto centrale su Palmyra sta nei campi gasiferi di Al Halil e Arak, che sono quelli che permettono la produzione di buona parte dell'energia elettrica di Damasco e Latakia (aree che per altro sono protette dal governo perché abitate dalla settaria minoranza di potere alawita: e se l'élite dovesse restare senza elettricità creerebbe grane al regime, per questo non ci si dovrà stupire se Assad manderà qualcuno a trattare per ottenere l'uso dell'energia, pagando, secondo una prassi già vista, il pizzo al Califfo). Inoltre il governo siriano aveva già trasformato l'area archeologica in una caserma a cielo aperto: qui si trova il più grande deposito d'armi della Siria e vi sono stoccati gli Scud; è improbabile che i soldati di Baghdadi sappiano usare certe tecnologie, ma c'è da aspettarsi tra qualche giorno una parata militare dell'IS “a cavallo” di un missile balistico. Terzo aspetto: da Palmyra passa l'autostrada M20, che taglia la Siria fino a Deir Ezzor, zona petrolifera in larga parte in mano all'IS, prossima al confine con l'Iraq e in grado di assicurarne la continuità territoriale.
Ma se la caduta di Palmyra è soggetta a tutte le controverse dinamiche interne siriane e alle doppie agende del governo di Bashar Assad, la perdita di Ramadi, è una sconfitta clamorosa per la Coalizione guidata dagli Stati Uniti. Il capoluogo dell'Anbar, la più grande provincia irachena, era da molti mesi teatro di offensive dello Stato islamico, che lo considera come proprietà legittima. Qui il terrorista Abu Musab al Zarqawi è visto come una specie di eroe nazionale antiamericano, ma questa è anche la terra abitata dalla larga maggioranza sunnita da cui partì il movimento del Risveglio, in arabo al Sahwa (nel resto del mondo il “Sunni awakening” di David Petraeus): quella resistenza spontanea che fu appoggiata dagli americani e fu cruciale nello sconfiggere, almeno momentaneamente, al Qaeda in Iraq (il prodromo dell'IS). Poi gli Stati Uniti tradirono quei sunniti, e misero alla guida del paese il governo-Maliki, sciita e settario. Seguirono anni di soprusi che hanno fatto di nuovo ricredere i sunniti locali sul fatto che in fin dei conti i jihadisti di Zarqawi (e ora quelli di Baghdadi), non si sbagliavano mica tanto: e così l'Anbar è diventato il bacino colturale e culturale dello Stato islamico.
Ramadi era l'obiettivo più prevedibile del Califfo: ciò nonostante a metà aprile funzionari del governo dicevano al Daily Beast che i rischi per la città erano «esagerati» e che niente sarebbe cambiato a breve. Strano concetto di breve: la notte tra il 14 e il 15 maggio, Ramadi è caduta in mano all'IS. Gli americani erano forti delle missioni aeree, oltre 160 nell'area, e dei rinforzi che continuavano ad inviare all'esercito iracheno. Solo che le bombe non sono bastate, e i soldati di Baghdad sono fuggiti in abiti civili, per non farsi riconoscere dai miliziani, lasciando quei rifornimenti di armi in mano all'IS. Ora mentre il premier iracheno dice che se si vuole «bastano due giorni per riprendersi Ramadi» e il capo delle operazioni estere dei Pasdaran iraniani Qassem Soleimani dice che però gli Stati Uniti «non vogliono» ─ sembra si siano messi d'accordo, e forse è così ─, i generali americani se la prendono con l'inadeguatezza dell'esercito iracheno (però quello c'è di disponibile ─ per ora) e “guarda che se vogliamo...”.
Minimizzare i fatti, è lo sport preferito dall'Amministrazione Obama in questo periodo. La mattina del 15, il capo dell’Operazione Inherent Resolve che guida la Coalizione anti-IS, il generale dei Marines Thomas Weidley, sosteneva che tutto sommato l’IS era sulla difensiva: poi il pomeriggio il vicepresidente Joe Biden, dopo aver parlato con il premier iracheno, e commentato che la situazione era seria e grave («Una sconfitta per Baghdad», diceva come se non fosse anche un po' di Washington), faceva annunciare l'invio di altre armi importanti all'Iraq. Si tratta essenzialmente di lanciarazzi da spalla (Manpads), che sono fondamentali per colpire i blindati esplosivi con cui l'IS rompe le barricate dell'esercito (a Ramadi sono stati usati trenta camion-bomba in tre giorni). Dovevano essere mille Manpads, poi c'è stato una specie di riconteggio e sembra ufficialmente che ne partiranno il doppio ("sono duemila, che faccio lascio?" è un po' la strategia del "giorno per giorno" di cui parlava Gates: e intanto si fanno battute sul quando queste nuove armi se le prenderà di nuovo il Califfo).
Il generale Weidley è colui che sosteneva che per capire come va la guerra allo Stato islamico, serve di avere un approccio «matematico». Praticamente (non è uno scherzo, è la linea proposta dal capo della più importante missione internazionale contro il terrorismo islamico) secondo l'alto ufficiale dei Marines, bisogna «sottrarre dal livello iniziale tutti i bersagli che sono stati distrutti dai bombardamenti americani, e si vede cosa gli è rimasto». Un'equazione assurda, che, primo non spiega quello che è successo a Ramadi (dove la gente si ritrova davanti gli stessi che erano stati cacciati col sangue del Sahwa e l'aiuto americani nove anni fa, e magari ricomincia a credergli pure); secondo non tiene conto che nel frattempo l'espansione territoriale ha permesso al Califfo di entrare in possesso di altri nuovi armamenti (come quelli di Palmyra, o delle caserme di Ramadi).
Martedì scorso, il Congresso americano ha incontrato una commissione di esperti militari. La diagnosi finale è stata unanime: l'America sta perdendo la guerra contro lo Stato islamico. Però c'è una cura secondo questi esperti, ma è una prescrizione con effetti collaterali: inviare laggiù almeno 15 mila soldati.


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