Magazine Cultura

“Valperga”– Mary Shelley II

Creato il 13 novembre 2011 da Marvigar4

ponte bagni di lucca

Mary Shelley (1797-1851)

VALPERGA

o

La vita e le avventure di Castruccio, Principe di Lucca

Traduzione integrale di Marco Vignolo Gargini dall’originale in inglese Valperga; or the Life and Adventures of Castruccio, Prince of Lucca

qpqpqpqpqpqpqpqpqpqpqpqpqpqpqpqpqpqpq

Capitolo 2

Castruccio visita Firenze. Eutanasia dei Adimari e suo padre. Il padre di Castruccio muore.

   Un viaggiatore era arrivato ad Ancona da Firenze e aveva diffuso la notizia che uno strano e fantastico spettacolo si sarebbe tenuto là il primo maggio di quell’anno. Per le strade della città un araldo, mandato dagli abitanti del quartiere di San Frediano, aveva proclamato che tutti quelli che desideravano avere notizie dall’altro mondo, riparassero il primo maggio sul ponte di Carraia o sulla banchina dell’Arno. Il viaggiatore aggiunse che, a suo parere, si stavano facendo preparativi per mostrare l’Inferno, così com’era stato descritto in un poema scritto di recente da Dante Alighieri, una parte del quale era stato letto e aveva dato origine al proclama.

   Il racconto suscitò la curiosità e infiammò l’immaginazione di Castruccio. Si era impressa nella sua mente l’idea che avrebbe assistito a questo spettacolo meraviglioso, e non fece in tempo a pensare all’opportunità che la sua decisione fu presa. Non osò chiedere il permesso a suo padre, perché sapeva che avrebbe rifiutato e, come molti altri, pensò che la cosa migliore era andare, senza accennare il suo piano, piuttosto che venir meno a un comando effettivo. Provò rimorso ad abbandonare suo padre, ma la curiosità era più forte del sentimento e ne fu sopraffatto: lasciò un biglietto per Ruggieri e, nel silenzio della notte rischiarata dalla luna piena, montò sul suo destriero e partì da Ancona. Mentre attraversava le strade della città più volte si pentì e pensò di tornare indietro, ma appena varcate le mura gli sembrò di sentire la gioia della libertà scendere su lui, e proseguì la sua corsa con un piacere impulsivo, mentre le montagne e le foreste dormivano sotto la luna e il mormorio del mare placido era l’unico suono che udiva oltre a quello degli zoccoli del suo cavallo.

   Cavalcando a marce forzate e cambiando il suo cavallo per la strada, in cinque giorni arrivò a Firenze. Provò una sensazione insolita di piacere appena sceso dalle montagne in Toscana. Solo sui brulli Appennini, dove un vento impetuoso fischiava, si sentì libero. Non c’era nessuno vicino a lui a controllare le sue mosse, ad ordinargli di restare o andare, ma era la sua volontà che guidava il suo cammino, rapido o lento, secondo lo stimolo dei disparati pensieri della sua mente. Era come se l’aria che gli scivolava addosso fosse una parte della sua stessa natura a sostegno della sua anima; gli impulsi dell’affetto si mischiavano con queste sensazioni inspiegabili. Ripensava alla sua città natale, soffriva a indugiare sul momento in cui sarebbe stato richiamato dall’esilio e ad assaporare i sogni di potere e di distinzione.

   Alla fine giunse nella bella città di Firenze. Era il primo maggio e dalla sua locanda si affrettò a raggiungere il luogo della rappresentazione. Avvicinatosi, osservò le strade quasi bloccate dalla folla che si riversava nello stesso punto e, non conoscendo la città, pensò che fosse meglio seguire la folla piuttosto che cercare da solo la strada. Trascinato dalla calca, arrivò finalmente davanti all’Arno. Era ricoperto di barche su cui erano state erette delle impalcature con appese delle tele nere e il drappeggio accatastato dava vita alle fiamme, altrimenti oscurate dal chiarore del giorno. In mezzo a queste fiamme si muovevano delle orrende e stravolte legioni d’ombre, alcune con corni di fuoco, zoccoli, e ali orribili, altre rappresentavano le anime nude tormentate, simulando alti strilli, urla e risate demoniache. Il dramma infernale era molto verosimile e l’effetto terribile di tali scene fu accresciuto dal fatto che tutto collimava perfettamente con ciò che era già nell’immaginario degli spettatori, rivestito dai colori vivaci di una convinzione inconcepibile in quei giorni di letargo.

   Castruccio si sentì percorso da un brivido d’orrore: la scena gli apparve per un momento nelle vesti della realtà e non della rappresentazione, l’Arno sembrava una voragine che sbadigliava, dove la terra si era spalancata per mostrare i misteri del mondo infernale, quando all’improvviso un enorme crollo aumentò l’orrore della spaventosa commedia. Il ponte di Carraia, sul quale stava un numero incredibile di spettatori, gli uni sugli altri fissi a guardare il fiume, cadde. Castruccio vide i sostegni allentarsi e vacillare l’arco del ponte e, cacciando istintivamente un urlo, allungò le braccia, quasi a salvare quelli che stavano lì sopra. Il ponte crollò con uno schianto reso più rimbombante dalle case sul Lungarno e pure il boato, che fu sentito fino alle colline che circondano la valle, si alzò su nel cielo, accompagnato da urla di terrore e voci che chiamavano disperatamente i nomi di chi era ormai scomparso per sempre. La confusione fu terrificante al di là d’ogni descrizione: c’era chi fuggiva, chi si gettava sulle rive del fiume per soccorrere i feriti, e tutti erano in preda ad un panico superstizioso, che li rimproverava per aver messo in scena i misteri orripilanti della loro religione, ed esplodeva in esclamazioni spaventose e sfrenato orrore. L’eroismo di Castruccio non servì: colse al balzo la possibilità di aprirsi un varco tra la folla e, raggiunta la strada, con le ginocchia tremolanti si mise a correre a più non posso proprio dal punto che aveva ansiosamente cercato la mattina. Il frastuono delle urla cessò piano piano prima che rallentasse la corsa.

   La prima idea che gli venne in mente mentre riprendeva a respirare fu “Sono scampato all’inferno!” e, vedendo una chiesa aperta, d’istinto, vi entrò. Provò la sensazione d’essere sfuggito ai poteri del male e, se aveva bisogno di protezione, dove l’avrebbe trovata con più sicurezza se non nel tempio dove era venerato il Dio dell’universo? Era proprio come passare dall’Inferno al Paradiso, essere scappati dagli spintoni della folla, dallo spettacolo terribile dell’imitazione dei tormenti, dal lugubre schianto che rimbombò come un tuono fin verso il cielo, dagli strilli dei moribondi – al silenzio della chiesa vuota, al vago profumo di incenso, e alle poche quiete luci che brillavano sull’altare maggiore. Castruccio, camminando per la navata, era al colmo della soggezione e la coscienza, viva e presente, lo rimproverò a fondo per aver abbandonato suo padre. E appena fu invaso dal pensiero, “Se fossi stato su quel ponte”, non poté resistere all’emozione, così le lacrime scesero sulle sue guance, e scoppiò in singhiozzi.

   Un uomo, che non aveva visto il ragazzo inginocchiarsi in un angolo accanto all’altare, si alzò udendo il suo dolore e si avvicinò. «Perché piangi?», disse. Castruccio, che non lo aveva sentito venire, sollevò lo sguardo con sorpresa, perché quella era la voce di Marco, il servo dell’amico di suo padre, Messer Antonio dei Adimari. Marco lo riconobbe subito: anche se l’avesse visto una volta sola, chi avrebbe potuto dimenticare quegli occhi neri, ombreggiati da lunghe, forti ciglia, i suoi capelli rossi, e il contegno che diffondeva una franchezza e una persuasione tenere? Il ragazzo abbracciò il suo amico umile ma affettuoso e con lui pianse a lungo. Una volta calmatosi, raccontò la sua storia in poche parole. Marco non vedeva niente di male in uno spirito avventuroso e consolò subito Castruccio. «Sei al sicuro», disse, «Non è stato fatto alcun danno. Vieni, questa è una coincidenza davvero fortunata: il mio signore e la mia signora si trovano a Firenze, passerai la notte con loro, e domani mattina ti manderemo a casa da tuo padre che sta in pensiero.»

   Gli occhi di Castruccio si accesero di speranza. «Eutanasia è qui?»

   «Sì»

   «Su, presto, caro Marco, andiamo. Che fortuna essere venuti a Firenze!»

   La vita di Messer Antonio dei Adimari era stata spesa al servizio militare e civile del suo paese, spesso era stato Priore e adesso, che l’età e la cecità lo avevano obbligato a ritirarsi dagli uffici pubblici, i suoi pareri erano richiesti e messi in pratica dai suoi successori. Aveva sposato l’unica figlia del Conte di Valperga, un feudatario che possedeva un ingente patrimonio nel territorio di Lucca. Il suo castello era in mezzo agli Appennini a nord di Lucca, e il suo patrimonio consisteva in pochi paesi sparpagliati, raccolti sulle cime dei monti e resi quasi inaccessibili dalla natura.

   Dalla morte del padre la moglie di Adimari divenne contessa e castellana del distretto, e gli obblighi che questo governo le imponeva erano spesso causa del trasloco della sua intera famiglia da Firenze al castello di Valperga. Fu durante queste visite che Adimari rinnovò un’amicizia già presente tra lui e Ruggieri degli Antelminelli. Messer Antonio era un guelfo e aveva combattuto contro Manfredi sotto le insegne del papa: durante una campagna avvenne che Ruggieri cadde ferito e prigioniero nelle sue terre. Messer Antonio lo trattò con umanità e, quando si rese conto che nessuna cura lo poteva ristabilire lontano dal suo principe, e che languiva nell’attesa di stare accanto a Manfredi, lo liberò. Questo fu l’inizio di un’amicizia che maturò con lo scambio di reciproci favori, e più di tutto con la stima che si portavano a vicenda e che legò a lungo le due case, seppure di diverso partito, nella più stretta delle amicizie.

   Adimari continuò a servire il suo paese, finché l’invalidità gli permise di ritirarsi da questi doveri attivi e spossanti, e, rinunciando all’idea delle fazioni e delle guerre, di dedicarsi esclusivamente alla letteratura. Lo spirito d’apprendimento, dopo un lungo sonno che sembrava averlo annichilito, si ridestò e lo portò in lungo e in largo per la sua amata Italia. Tesori inestimabili del sapere esistevano allora nei vari monasteri, del cui valore gli abitanti furono a lungo all’oscuro, e perfino i laici iniziarono ad avere quella curiosità che pochi anni dopo fece viaggiare il Petrarca per l’Europa a collezionare manoscritti e a proteggere quei meravigliosi scritti, ormai lacunosi, ma che altrimenti sarebbero andati perduti del tutto.

   Antonio dei Adimari amava riposarsi in seno alla sua famiglia, la sua solitudine si animava nelle dispute che teneva con gli antichissimi saggi di Roma. La sua famiglia era composta da sua moglie, due figli, e una figlia di soli due anni più giovane di Castruccio. Lui e Eutanasia erano stati allevati insieme quasi dalla culla. Avevano camminato mano nella mano tra le montagne sperdute e i boschi di castagni intorno al castello di sua madre. Avevano in comune gli studi e i divertimenti, e fu un colpo terribile per entrambi quando si separarono per l’esilio degli Antelminelli. Eutanasia, il cui cuore era un oceano d’amore, soffrì molto e per molti mesi, e anche dopo anni, i suoi occhi scintillanti e i pianti attestavano che lei ancora ricordava e non avrebbe mai dimenticato il compagno di gioco della sua infanzia.

   Al momento di questa separazione Adimari fu minacciato da un’avversità, la peggiore che potesse capitare ad un uomo di studio: la cecità. La malattia progredì e in un anno non vide più niente di questo bel mondo se non un universale e impenetrabile vuoto. In questa condizione terribile Eutanasia fu la sua unica consolazione. Non potendo occuparsi dell’educazione dei suoi ragazzi, li mandò alla corte di Napoli, che era stata sua alleata e dove aveva molti amici di valore. Solo la figlia rimase ad allietarlo con la sua loquacità, infatti la contessa, sua moglie, una donna di nobile nascita e di alti principi, non amava le sue occupazioni sedentarie. «Non ti abbandonerò», gli disse un giorno Eutanasia, mentre lui la esortava ad andarsene e a divertirsi. «Mi fa molto piacere conversare con te. Adesso tu non puoi leggere o trascorrere il tuo tempo con quelle vecchie pergamene che tanto adoravi. Ma dimmi, caro padre, non puoi insegnarmi a leggerle per te? Sai che so leggere molto bene e non sono mai così contenta come quando riesco a decifrare alcune canzoni dei trovatori, o delle vecchie cronache. Sono scritte sicuramente in un’altra lingua, ma questa non mi è del tutto ignota e, se tu avrai un po’ di pazienza con me, credo che sarei in grado di comprendere questi autori difficili.»

   Lo studioso disabile non rifiutò un’offerta così amorosa. Ogni giorno imparava un latino rude e barbaro, la cui conoscenza adesso Eutanasia alternava con la lingua impeccabile di Cicerone e Virgilio. Un prete di una cappella vicina fu il suo tutore e il desiderio di compiacere suo padre la rese infaticabile nei suoi sforzi. Superate le prime difficoltà, passava giorni interi su questi oscuri manoscritti che leggeva al padre, il quale provava un rinnovato interesse per i poeti antichi non appena sentiva citare i loro versi dalla sua adorata Eutanasia. L’effetto di questa educazione su di lei fu proficuo e indelebile: non ebbe quell’idea angusta dei tempi presenti, come se fossero tutt’uno con il mondo, che caratterizza le persone incolte; percepì e considerò le rivoluzioni trascorse e il presente le sembrò soltanto una pausa, dalla quale il tempo prendeva spunto per rinnovare il suo volo, diffondendo il cambiamento lungo la strada. E, se la sua voce e i suoi atti riuscivano ad aderire ai minimi vantaggi di tali cambiamenti, era solo perché la sua immaginazione lo voleva. Eutanasia si addentrò profondamente nelle azioni e nei pensieri degli uomini che disprezzavano lo spirito di parte e coglievano l’universo nelle loro speranze di virtù e indipendenza.

   La libertà non era mai stata venerata con più devozione come nella repubblica di Firenze: i Guelfi andavano vantandosi che il loro attaccamento alla causa della libertà potesse competere con gli esempi dei giorni gloriosi dell’antichità. Adimari si alleò con i Guelfi perché credeva di scorgere nei disegni e nei principi dei suoi capi il germe della futura indipendenza dell’Italia. Non era mai stato un fervente sostenitore della libertà per i suoi concittadini, ma coglieva quello spirito con accresciuto fervore negli scrittori romani e spesso, non vedendo la piccola bella figura che sedeva ai suoi piedi, dimenticava l’età di sua figlia e parlava con grande eccitamento di quel nobile spirito che provava nell’intimo del suo cuore. Eutanasia lo ascoltava e capiva, la sua anima, adatta a ricevere ogni bene, vuotava la coppa del sentimento espressivo che suo padre aveva riversato in lei, e i suoi occhi brillavano di una profonda emozione. I suoi pensieri giovanili precorrevano il futuro, nella speranza della libertà per l’Italia, dell’insegnamento ravvivato di un regno di pace per tutto il mondo: sogni sfrenati, che ancora spingono le menti degli uomini ai più alti canti e alle azioni gloriose.

   Questa fu l’educazione dell’amica di Castruccio, mentre ad Ancona lui apprendeva tutte le nozioni della cavalleria dalle lezioni del suo nobile padre. Adesso, dopo tre anni di assenza, si incontravano a Firenze, senza mai essersi dimenticati dell’amicizia che si erano giurati da piccoli.

   Quando Marco condusse il suo giovane amico al palazzo degli Adimari, capitò nel momento in cui il suo padrone e la contessa ricevevano la visita di alcuni esponenti del partito Guelfo, e si avvide che quella non era l’occasione né il luogo per presentare il giovane ghibellino. Però, mentre passavano lungo il salone, una figura di silfide giunse dall’altra stanza, apparsa come una stella dietro una nuvola. «Vi porto il vostro amico in esilio», disse Marco, «Castruccio degli Antelminelli è venuto a trovarvi.»

   «Castruccio a Firenze!» urlò Eutanasia, e subito abbracciò il suo amico con un affetto fraterno. «Come sei arrivato tra queste mura? Tuo padre è qui con te? Ma questo non è il posto per farti le domande che mi premono prima che tu parta. Vieni in questa stanza, solo mio padre potrà entrare qui. Ora mi dirai tutto quello che è successo da quando avete lasciato Lucca.»

   Castruccio guardò a lungo Eutanasia: avrebbe potuto, pensò, nutrirsi per tutta la sua vita di quella tenera bellezza, in cui una profonda sensibilità e un pensiero vivace erano il fedele ritratto, insieme al giudizio e alla ragione superiori alla sua età. Era come se gli occhi di Eutanasia, mentre brillavano di piacere, leggessero la sua anima. Lui desiderava sentirla parlare, ma lei chiedeva con insistenza il suo racconto, di come era vissuto ad Ancona ed era capitato a Firenze. Lo rimproverò amabilmente per aver abbandonato suo padre e poi aggiunse: «Non devo essere ipocrita: sono contenta che tu sia qui, rivederti è per me un piacere che non so esprimere. Ma sento i passi di mio padre. Devo precederlo e parlargli dell’ospite insolito che è venuto.»

   Castruccio era al massimo della gioia, seduto tra Eutanasia e il padre. Lo trattarono con grande affetto e durante la conversazione misurarono ogni parola per riempire di speranza e di gioia il suo esilio. Gli dissero che, se dovevano partire adesso, aspettassero il momento giusto in cui lui e suo padre sarebbero stati richiamati in patria con onore. Adimari non poteva vedere gli occhi lucenti e il portamento appassionato del ragazzo, ma ascoltava volentieri i dettagli delle loro occupazioni ad Ancona, e si accorse facilmente che la sua giovane mente nutriva dei sogni per il futuro. Incoraggiò le sue aspirazioni all’onore e lo esortò ad essere fedele ai principi di suo padre.

   Queste ore incantevoli volarono e il mattino dopo dovettero separarsi. E mentre scendeva la sera la conversazione avvolse di solennità i loro sguardi e le loro parole. Castruccio si fece pensieroso e guardava la sua amica come un tesoro che stava perdendo, forse per sempre. Eutanasia era in silenzio, gli occhi a terra, e il colore mutevole delle sue guance mostrava il nugolo dei pensieri che lei non sapeva pronunciare. Alla fine alzò gli occhi e disse: «Domani ci separiamo, Castruccio, come ci siamo separati in precedenza… per molti anni, temo. Ma ci sono due tipi di separazione. Una, in cui si sopporta il tempo dimenticando il passato, come se la morte, quella divisione che non consente più di incontrarsi, o una divisione che sostituisce tutti i legami personali, fosse stata la causa della separazione. Ma ce n’è un’altra, quando abbiamo a cuore la memoria della persona assente, e si agisce per quella persona come se fosse con noi, quando il ricordo è un dovere vitale. Questa separazione è possibile solo tra amici, quando ognuno nelle sue meditazioni è sicuro che l’altro pensa ugualmente a lui: allora, ti sembra che pensare alle parole e agli sguardi di un amico sia tutt’uno con il vederlo. E questa sarà la nostra separazione. Condividiamo le stesse idée di virtù e sacrificio, e la nostra amicizia sarà devoluta a questi scopi: rendere dolce il sacrificio e la virtù più piacevole. Siamo molto giovani, non sappiamo quali avversità sono in serbo per noi, quali perdite, forse legate alle calunnie o perfino al disonore, potranno macchiare in futuro i nostri nomi. Nelle calunnie è agli amici della nostra giovinezza che dobbiamo rivolgerci, perché solo loro sanno quanto sia puro il nostro cuore, il cuore che loro hanno avuto modo di conoscere nei tempi in cui la sapevamo fingere. Loro, se sono sinceri, non oseranno lasciarci senza consolazione. Castruccio, so che non disonorerai mai te stesso e, ricordati, se in qualsiasi difficoltà avrai bisogno di un’amica che ti consoli con la sua comprensione e confidenza, e ti aiuti nei limiti delle sue possibilità, io sarò sempre per te quell’amica.»

   Eutanasia era ancora una bambina quando fece quella promessa. Però vedeva in Castruccio, l’amico della sua infanzia, un giovane di nobile nascita e allevato nobilmente, un emarginato e un fuggiasco. Lei aveva sentito dire e aveva appreso che l’infelice ragazzo aveva trovato ben pochi amici, e la generosità le faceva nascere quei sentimenti che una natura sincera sa esprimere. Sentiva che Castruccio provava un profondo affetto per lei e sperava che una promessa così spontanea e solenne fosse per lui una consolazione nelle calamità. Lui comprese la bontà della sua motivazione e replicò con prontezza: «Sono un fuggiasco e a te che sei ricca non posso procurare alcun bene. I miei sono ringraziamenti sterili. Ma non per questo, se le nostre sorti dovessero cambiare, mancherò alla promessa d’essere tuo amico, tuo cavaliere, la rocca su cui potrai costruire la tua speranza e la tua fiducia in ogni disgrazia.»

   La mattina dopo, accompagnato da Marco, Castruccio lasciò Firenze. Il suo sentimento era un misto di dolore per la separazione e di gioia per aver visto ancora una volta Eutanasia. Ogni parola che lei pronunciava e ogni sguardo dei suoi adorabili occhi furono per lui un tesoro, un conforto e uno stimolo nelle difficoltà, un incentivo al nobile impegno. Adimari fu molto affettuoso nel commiato e a Castruccio dichiarò che, per quanto nelle possibilità di un uomo cieco, lui avrebbe promosso i suoi interessi e colto la prima opportunità offertagli di fare ottenere la revoca del suo esilio. C’erano una gentilezza e una signorilità nei modi dell’amico ormai anziano che toccò il cuore del ragazzo, il quale in seguito pensò di aver intuito un significato nascosto nelle ultime parole udite, che interpretò come l’espressione di una sobria fermezza e non come un’altra bolla d’aria della Speranza incantatrice. «Rammenta», disse il venerabile fiorentino, «Io ti approvo e ti voglio bene, e se diventerai ciò che il tuo talento e le tue virtù promettono, in futuro potrai essere il mio favorito. E ora, addio. E non dimenticarmi!»

   Incoraggiato e risollevato dalle speranze future di una buona sorte e di un’ascesa, non più unite al timore, Castruccio tornò da suo padre con animo sereno, risoluto più che mai all’idea del miglioramento e della realizzazione di azioni nobili. Adesso, rimessa l’angoscia del padre per le sofferenze causategli in passato, i suoi giorni trascorrevano, com’era sua abitudine, nell’adempimento di compiti gradevoli.

   Il tempo passava e il ragazzo stava preparando la sua futura carriera, rafforzato nella mente dallo studio e nel corpo dal lavoro. La sua andatura assunse l’energia di chi non prova paura, e il suo sguardo attento era fisso su di un punto, per nulla distolto dalle possibili ombre che si frapponevano tra lui e il suo sospirato sole. I suoi occhi, che finora trasmettevano un senso di sincerità e di dolcezza accattivante, ora avevano la brillantezza di un significato più profondo. Castruccio entrò nei diciassette anni e stava vagliando la sua forma fisica, nella speranza che il padre non si opponesse al desiderio crescente di lasciare quella che considerava una solitudine senza vita: come un giovane che si getta in mare da una roccia e si spinge ad esercitare quelle facoltà che prima aveva soltanto vagheggiato, così la sorte scagliò Castruccio dal suo angolino sereno nell’oceano della prudenza, per affogare o nuotare, fidando nell’aiuto del fato e della sua propria forza.

   Il padre morì. Una febbre maligna, portata da qualcuno che proveniva da Levante, imperversò nella città di Ancona, e Ruggieri fu una delle prime vittime. Appena fu colpito si rese conto che doveva morire e con profonda tenerezza e preoccupazione guardò suo figlio, tanto giovane eppure chiamato subito alla vita, con una mente che ardeva e ornato d’ogni grazia… le grazie della giovinezza, macchiate così facilmente e irrimediabilmente! Gli ordinò di non avvicinarsi a lui durante la malattia, che era molto contagiosa, ma, visto che Castruccio gli faceva visita di nascosto, capì che era inutile opporsi e, supplicandolo soltanto di usare ogni precauzione immaginabile, passarono insieme gli ultimi momenti di vita di Ruggieri. La febbre era troppo violenta per permettere una conversazione regolare, ma il padre morente esortava a rammentare le sue precedenti lezioni e a serbarle nel suo cuore. «Ho scritto una lettera», disse, «che consegnerai a Francesco de Guinigi. Era uno dei miei più cari amici a Lucca, di nobile nascita e molto ricco, ma ora è un esule come me e si è rifugiato nella città degli Este in Lombardia. Se conserva ancora nell’avversità quella generosità che lo aveva così tanto distinto, sentirai meno la perdita di tuo padre. Va’ da lui, Castruccio, e lasciati guidare dai suoi consigli: lui ti suggerirà come impiegare il tuo tempo nel modo più adeguato per un esule del tuo stesso paese. Ascoltalo con la stessa deferenza che hai mostrato a me, perché lui è uno dei pochi uomini saggi rimasti in questo mondo la cui vanità si manifesta di più a me, ora che sto per lasciarlo.»

   Ogni tanto Ruggieri rinnovava i suoi affettuosi consigli. La tenerezza paterna non lo abbandonò nei suoi ultimi istanti e morì indicandogli che si sarebbero incontrati in Paradiso. Castruccio era sopraffatto dal dolore per la sua scomparsa. Ma il dolore morale fu rapidamente messo a tacere da quello fisico: aveva inalato l’aria pestilenziale dal respiro del padre morente e come lui fu presto costretto a letto dalla malattia, anche se a differenza del padre non aveva assistenza, cure per la sua febbre e i suoi voleri. Tutti erano fuggiti per evitare il contagio e fu solo la costituzione robusta del ragazzo che gli permise di rimettersi.

   Un mese dopo la scomparsa del padre Castruccio, più morto che vivo, uscì a fatica dal suo appartamento per respirare l’aria fresca del mare. Il vento che si abbatté su di lui lo fece rabbrividire e il cielo cupo lo riempì di un senso di scoramento. Ma questa fu un’impressione passeggera: giorno dopo giorno riacquistò le forze, e con le forze e la salute tornò lo spirito d’ottimismo della gioventù. La prima sensazione viva che provò fu un desiderio ardente di lasciare Ancona. Durante la sua malattia aveva sentito con amarezza l’assenza di molti dei suoi amici più cari e fidati. Quando fu in grado di scoprire se le persone che dentro di sé aveva rimproverato fossero false o meno, si accorse che erano tutte morte. La pestilenza le aveva visitate e uccise, mentre lui, pieno di lividi e mezzo rotto, aveva rialzato la testa quando la visita mortale era finita. Questi dispiaceri e queste perdite gravavano nel suo intimo e così fece esperienza di quell’impressione che ci inganna ad ogni età, quella di credere che cambiando luogo si possa cambiare le sensazioni d’infelicità con quelle di una natura più geniale. Era iniziata la stagione delle piogge, ma lui non avrebbe rinviato la sua partenza, così, preso un commiato straziante dalle tombe dei suoi amici e dagli amati genitori che non avrebbe più rivisto, lasciò Ancona.

   La bellezza delle montagne e il panorama suggestivo per un po’ incantarono i suoi pensieri. Attraversò il paesaggio dove Asdrubale, il fratello di Annibale, fu sconfitto e ucciso sulle alture che portano ancora il suo nome. Sotto scorreva un fiume e il luogo era rivestito da alberi gialli o rossi, così tinteggiati dai venti autunnali, fatta eccezione per un gruppo di lecci che dava vita allo scenario. Mentre procedeva la pioggia si abbatté su di lui e le colline, ora più distanti, erano nascoste nella nebbia, e verso est il triste Adriatico riempiva l’aria con il suo irrequieto rimbombo. Castruccio aveva già attraversato rapidamente questi paesaggi, quando si recò alla Festa d’Inferno[1] a Firenze. All’epoca erano abbelliti da una nuova primavera, i raggi del sole illuminavano le pieghe variegate delle montagne e la luce oscillava facendo scorrere un’altra montagna, che danzava sotto il bagliore. Castruccio aveva questi ricordi, e fissò afflitto il cielo oscurato da una spessa trama di nuvole bianche, e si rimproverò del fatto che con quel cambiamento anche la sua fortuna era cambiata. Eppure, riflettendo su ciò che gli era accaduto durante il suo ultimo viaggio, la fantasia vagò e si rivolse ad Eutanasia, e lì si fermò, serbando la gioia della sua amata immagine.

   Attraversò molte città, dove non aveva e non cercava amici. Anche se avesse desiderato di avere protezione, molte di loro erano governate da signori ghibellini, che lo avrebbero accolto con ospitalità. Rimini era governata dal marito di Francesca, il cui sventurato destino è immortalato da Dante. Lei era morta, ma i concittadini, con un misto di pietà e orrore religioso, ancora parlavano di lei come la creatura più amabile sulla terra, anche se per la sua anima perduta, condannata all’eterno dolore, non osavano pregare.

   Castruccio viaggiava con lentezza. Era fiacco e incapace di sostenere l’esercizio fisico. Ma la sua mente recuperava gradualmente la sua forza abituale, e l’immaginazione, sempre all’opera, disegnava la sua vita futura, brillante di un entusiastico, trascendente amore di gloria e successo. Così, in solitudine, senza sguardi che correggessero la sua esuberante vanità, alzava le braccia a nord, a sud, a est e ad ovest, urlando: «Là, là, là, e là, raggiungerò la mia fama! » e poi, in segno di sfida, lanciando il suo sguardo febbrile verso il cielo: «E anche là, se un uomo può scalare le fiancate scivolose del palazzo tutto archi della fama eterna, là anch’io sarò ricordato.»

   Era ancora un ragazzo di diciassette anni quando diceva queste cose. I suoi desideri in seguito furono ampiamente esauditi: non sarebbe stato più felice se non avesse soddisfatto questi desideri e fosse annegato nell’innocente oscurità insieme a milioni di persone che popolano le nazioni nel vasto oceano dell’oblio? Il seguito della sua storia risolverà la questione.


[1] In italiano nel testo.



Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :