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venere in pelliccia

Creato il 22 novembre 2013 da Albertogallo

LA VÉNUS À LA FOURRURE (Francia-Polonia 2013)

locandina venere in pelliccia

Shiny, shiny, shiny boots of leather… No, la canzone dei Velvet Underground, peraltro citata nel corso del film, non c’entra niente, sebbene l’atmosfera di decadente erotismo sia la medesima, mutuata su vinile e su pellicola dal romanzo del 1870 dell’austriaco Leopold von Sacher-Masoch (da cui il termine “masochismo”). Può un film “minore” essere considerato un capolavoro, o quantomeno una delle opere migliori in assoluto del regista che l’ha partorito? Sì, se il regista in questione è il quasi infallibile Roman Polanski e il film Venere in pelliccia.

Un autore-regista teatrale di scarso successo, un’aspirante attrice, un copione scabroso, un provino in un piccolo teatro di Parigi: ecco i pochi, essenziali elementi di questa pellicola quasi casalinga (in tutti i sensi: la protagonista femminile è Emmanuelle Seigner, moglie di Polanski), capace di portare in modo perfetto alle estreme conseguenze l’ossessione del regista per gli spazi ristretti e i cast ridotti all’osso (si veda anche il precedente Carnage, del 2011). Il perverso meccanismo psicologico che si instaura tra i due protagonisti (lui è Mathieu Amalric, forse il miglior attore europeo della sua generazione), interamente giocato sui concetti di dominio e sottomissione, in senso professionale, sessuale e di genere, è costruito in modo sottilissimo, disinibito e divertente: la posta in gioco è piuttosto elevata (i rapporti umani, il confronto uomo-donna, lo scontro tra arte e vita), ma Venere in pelliccia rimane comunque una commedia, che nel finale degenera senza farsi troppi problemi nel grottesco, dipingendo una sorta di vendetta femminile per millenni di sottomissione al maschio dominante. Vanda, in questo senso, che porta lo stesso nome della protagonista del romanzo, è un personaggio simbolico, ambiguo, in perenne bilico tra furbizia e ingenuità, perfida eppure irresistibile nel suo completo sadomaso. Thomas, invece, come è giusto che sia, risulta molto più monodimensionale, rinunciando quasi subito al suo ruolo “dominante” (d’altronde è lui il regista dello spettacolo) per sottomettersi al potere femminile, in un rapporto non consumato di dipendenza sessuale. Che splendida e tragica metafora della condizione maschile!

Un film perfetto, nel suo piccolo (ma nemmeno troppo piccolo), che in un mondo migliore frutterebbe alla protagonista almeno una candidatura all’Oscar. Belle le musiche del solito Alexandre Desplat.

Alberto Gallo



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