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Vesti la giubba…

Creato il 07 giugno 2012 da Marvigar4

Enrico Caruso

Recitar!…Mentre preso dal delirio
Non so più quel che dico e quel che faccio!
Eppur… è d’uopo… sforzati!
Bah, sei tu forse un uom? Tu se’ Pagliaccio!
Vesti la giubba e la faccia infarina.
La gente paga e rider vuole qua.
E se Arlecchin t’invola Colombina,
ridi Pagliaccio… e ognun applaudirà!
Tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto;
in una smorfia il singhiozzo e’l dolor…
Ridi Pagliaccio, sul tuo amore infranto!
Ridi del duol che t’avvelena il cor!

   “Recitar!… Mentre preso dal…” morso della fame. Sembra una battuta scherzosa, ma non ha niente di irriverente nei confronti dell’incipit famoso della romanza immortale che conclude il Primo Atto dei Pagliacci, melodramma scritto interamente, libretto e musica, da Ruggero Leoncavallo.

   È la storia di un’unione sacra, quella che lega un artista alla sua corrispettiva altra metà artistica. Qui s’incontrano il fato, che regala al talento la sua più perfetta espressione, e il beneficiario del dono, il talento fatto persona e sviluppato, che accoglie la generosità non mancando all’appuntamento decisivo della vita.

   Il 21 maggio 1892 debuttò al Teatro Dal Verme di Milano l’opera d’ispirazione verista che, insieme a Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni, resterà negli annali della lirica. I Pagliacci, secondo l’intenzione dell’autore, si doveva intitolare Pagliaccio, ma ci fu chi non visse con molto entusiasmo la prospettiva di dover cantare non solo come seconda voce maschile, ma pure ponendo il proprio nome in cartellone sotto un vocabolo al singolare, un po’ sbertucciante e alludente. Il baritono Victor Maurel, amico di Ruggero Leoncavallo, avrebbe fatto la fortuna della serata con la sua presenza, avrebbe aperto cantando il Prologo nei panni di Tonio:

Si può?… Signore! Signori!…Scusatemi
Se da sol mi presento… – Io sono il Prologo
”,

lui era il divo del momento, memorabile era stata la sua interpretazione come Iago nell’Otello verdiano, e ancor più degno di fama di lì a qualche mese il suo Falstaff nell’omonimo capolavoro del Genio di Busseto.

   E allora? Rinunciare a Maurel? Neanche per idea. Leoncavallo accontentò il suo amico e sul manifesto mise talmente in risalto la presenza del grande baritono da oscurare il nome di un giovane tenore molto promettente, ma ancora non affermato, che avrebbe vestito i panni del vero protagonista dell’opera, Canio. E in fondo non a torto: Fiorello Giraud è stato soltanto il primo Canio. Tutto qui. La fortuna capitata a questo cantante in erba non fu messa granché a frutto.

   Altro capriccio del divo Maurel: per carità, sul podio a dirigere l’orchestra non ci doveva andare l’altro amico di Leoncavallo, un maestro napoletano di cui adesso non si sa più niente, bensì un venticinquenne segaligno, dagli occhi accesi, che in pochi anni di dura gavetta nei teatri di provincia aveva impressionato tutti per il suo temperamento, per la sua già evidente capacità di trasformare qualsiasi opera in un gioiello. Sul podio ci doveva andare quel parmense che si era fatto le ossa in Brasile, al Teatro di Rio, dove a diciannove anni prese la bacchetta a furor di popolo dovendo sostituire il direttore previsto, ma non amato dall’orchestra. Sul podio ci doveva andare Arturo Toscanini.

   Maurel fu accontentato: il titolo divenne Pagliacci, Tonio, detto lo scemo, ebbe la promozione da secondo a primo nome sul cartellone principale, e Toscanini prese le redini dell’orchestra. Non finì qui. Il fiuto teatrale di Toscanini fu decisivo per un’altra modifica da apportare all’opera: dopo la prova generale i Pagliacci passarono dall’atto unico concepito da Leoncavallo a due atti, indubbiamente più logici, specie dopo l’Intermezzo.

   La serata del 21 maggio 1892 non fu un trionfo, i critici accolsero con molte riserve e con intuito proverbialmente mediocre il melodramma. Sul Corriere della Sera la recensione definiva in modo laconico Toscanini come colui che «diresse egregiamente l’orchestra», e parlava di Maurel in termini non certo elogiativi: «…di solito tanto efficace, pure cantando con molta espressione, non è riuscito a fare dello scemo Tonio un tipo vero ed umano». Più generosi i commenti sul giovane tenore, dotato di «sicurezza, bella voce ed accento drammatico, e sulla protagonista femminile Nedda, interpretata dal soprano Adelina Stehle, che profuse nel suo canto «molta dolcezza e sentimento».

   In genere gli interventi dei critici sul ruolo di Tonio non seppero trovare altro che una sorta di sigillo eterno impresso la sera del debutto da Maurel per i baritoni venturi, i quali, in primis Titta Ruffo, seppero poi smentire le previsioni, com’è naturale.

   Ma ancora Canio non era nato. Il parto avvenne dopo quattro anni.

   Al Teatro Verdi di Salerno la stagione d’opera 1896 propose un cartellone con due titoli veristi, A San Francesco, musica di Carlo Sebastiani e libretto di Salvatore Di Giacomo, i Pagliacci, e I Puritani di Vincenzo Bellini. Il Maestro Vincenzo Lombardi aveva la direzione dell’orchestra. A San Francesco fu un successo dovuto interamente al protagonista maschile, un tenore ventitreenne napoletano, mentre i Pagliacci conobbero un infortunio che rischiò di compromettere la loro permanenza nella stagione in corso. Canio venne affidato al tenore Pagani, così si stabilì, e nel corso di una recita avvenne l’imprevisto: durante il Primo Atto Pagani, in scena nonostante un’improvvisa ma propizia indisposizione, non riuscì praticamente a cantare. La sua voce roca era del tutto improponibile e il pubblico, che un tempo esisteva e reagiva con naturale competenza, rumoreggiò così tanto da indurre lo stesso tenore a non rientrare più dopo la calata del sipario. L’intervallo avrebbe deciso le sorti dell’opera. L’unica speranza era chiamare in tutta fretta quel tenore napoletano che aveva furoreggiato con A San Francesco perché sostituisse il povero Pagani. Se non che, raggiunto dalla chiamata mentre stava per recarsi a cenare, il tenore napoletano all’inizio rispose con un rifiuto: «Siete pazzi! Io ho una fame da morire!». Per convincerlo gli fu promesso che avrebbe trovato la cena pronta sul palcoscenico: «Mangia, allora; ma canta». Durante il Secondo Atto il nuovo Canio mangiò, cantò e fece venir giù il teatro dagli applausi. Anche qui, la scelta di Toscanini di dividere in due atti l’opera ebbe la sua provvidenziale ragione. Canio era nato, per sempre, e si chiamava Enrico Caruso.

   Ma la definitiva consacrazione dell’opera doveva attendere altri due anni, infatti solo nell’autunno 1898, al Teatro Politeama di Livorno, Caruso cantò per intero i Pagliacci. Da allora fu impossibile scindere il binomio Caruso-Pagliacci. È rimasta nella leggenda la frase di Caruso che, scritturato definitivamente al Metropolitan Opera House di New York nel 1905, iniziava a proporre il proprio repertorio con un «Pagliacci sta bene; ma anche…».

   New York accolse quello che era considerato il tenore più grande del mondo, specie dopo il successo discografico di “Vesti la giubba” (il titolo è il quinto verso della romanza già ricordata “Recitar!…”), la cui originale versione fu registrata il 12 novembre 1902, che divenne la prima incisione fonografica in assoluto a raggiungere un milione di copie vendute. Ascoltarla oggi, nell’epoca del digitale e delle più alte tecniche di registrazione, fa venire i brividi: l’opacità del timbro, i fruscii e l’assoluta mancanza della stereofonia non tolgono nulla a quella voce che sembra provenire da un altro mondo e sfondare la nostra dimensione, trionfando sulla tronfia chiarezza del suono delle attuali produzioni. Riconosci l’intera potenza dell’emissione, l’insuperabile carica drammatica, il genio dell’interpretazione, e non importa se la prosodia antica privilegia l’esecuzione in sé piuttosto che la scansione precisa del testo. Caruso ci ha donato l’aura eterna di un sentimento che va oltre, un sentimento ch’era autentico seppur riprodotto e ricostituito.

   La foto che vediamo è una delle innumerevoli scattate a Caruso nei panni di Canio, famose quelle realizzate da Aimé Dupont per il Metropolitan di New York, richiestissime dalle ammiratrici e dagli ammiratori di tutto il mondo che andavano in sollucchero a rimirare il grande tenore in abiti di scena, con l’ampia veste, bianchissima, dai bottoni vistosi e “la faccia infarina”.

   In questa immagine, con dedica in tedesco, prorompe la simpatia umana del cantante napoletano, la sua spigliatezza da guaglione inconsapevole di quella simbiosi fatale che era avvenuta tra la persona e il personaggio: l’artista costretto a “Recitar!… Mentre preso dal delirio”, la passionalità solamente meridionale di chi cerca di contenersi, ma non può e non vuole, l’impossibile autoconvinzione che “il teatro e la vita non son la stessa cosa”…

   Episodi che gettano luce sull’unione sacra di Caruso con l’opera di Leoncavallo: al Teatro Colón di Buenos Aires, tornato in camerino dopo la fine del primo atto dei Pagliacci, Enrico scoprì con sorpresa che aveva una ferita a un dito della mano destra. Cos’era successo? Semplicemente quello che doveva succedere. Canio, all’inizio della scena quarta, scorge la moglie in intimità con l’amante Silvio e, alle parole di Nedda “A stanotte – e per sempre tua sarò!” getta un urlo. Caruso, oltre all’urlo, s’era istintivamente morso la mano, preso da una rabbia che altrimenti sarebbe sfociata in una scenata alla napoletana.

   Nel 1908 Enrico Caruso venne lasciato da Ada Giochetti, il grande amore della sua vita, incontrata l’estate del 1897 a Livorno, mentre si trovava a cantare La Bohème e La Traviata (ironia dei nomi!), e, sconvolto dalla perdita della donna amata, riversò tutto il suo dolore e lo struggimento eseguendo “Vesti la giubba in un concerto all’Albert Hall di Londra. All’epoca si disse che il tenore fu talmente “vero” nell’interpretazione e nel pianto finale della romanza da far temere addirittura per la sua salute. Quel pianto, da nessuno mai più eguagliato, lo sentiamo ancora nella incisione del 1902 citata precedentemente.

   Pagliacci è stato ed è Enrico Caruso.

   Osservo le foto di Caruso che interpreta altri personaggi o si fa ritrarre semplicemente in borghese. Sono soltanto foto. Sono soltanto pose. Ma l’immagine di Canio ha un magnete inesprimibile.

   L’8 dicembre 1920, in una tournée, esegue il suo “lamento d’Enrico”, ormai segnato dalla malattia, e sul la naturale di “Vesti la giubba” la sua voce s’incrinò. La nota gli si spezzò in gola. Riuscì a concludere l’opera, ma la sua sorte era segnata.

   L’11 dicembre 1920 a Brooklyn durante una recita dell’Elisir d’amore Caruso ebbe un’emorragia causata da un ascesso polmonare. Gli sbocchi di sangue gli impedirono di proseguire, tentò invano di tamponarli con i fazzoletti, ma fu costretto a sospendere la recita.

   L’ultima rappresentazione del tenore napoletano fu tenuta durante la vigilia di Natale dello stesso anno, con la Juive di Halevy.

   Enrico Caruso morì il 2 agosto 1921.

© Marco Vignolo Gargini



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