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“Vicolo del precipizio” – Intervista a Remo Bassini

Creato il 02 febbraio 2012 da Fabry2010

Pubblicato da mmagliani su febbraio 2, 2012

di Marino Magliani

“Vicolo del precipizio” – Intervista a Remo Bassini

Remo Bassini ha scritto parecchi libri, alcuni molto ben accolti dalla critica, e credo anche dal pubblico. Sicuramente è un autore che, col tempo, è riuscito a proporsi ad un “suo” pubblico. Nel suo blog, Altri Appunti, emergono a volte le ossessioni delle cose editoriali. Anche di questo genere di informazioni, per o sugli addetti ai lavori, Bassini scrive sinceramente (una parola che non ama usare); non spiega mai, non ha questa presunzione, ma racconta, e questa è una cosa che sa fare bene.
Oggi parleremo con lui di Vicolo del precipizio, che è l’ultimo suo romanzo (Perdisa, 2011).

- Remo, vorrei iniziare da un posto, Cortona, paese mio che stai sulla collina, perché tutto nasce da lì, e forse quando si parla della narrativa bassiniana non ci si ferma mai abbastanza su questo nome, magari perché il tuo lavoro di giornalista (Bassini è direttore de “La Sesia”) e quindi le risaie di Vercelli, o il noir che per molto tempo hai praticato lungo i canali nella nebbia, ti hanno distratto un attimo, mentre è chiaro che, quando uno nasce a Cortona, ovunque vada, se gli chiedono quando tornerai, risponderà che non è mai partito.

Nel 1958 i miei genitori lasciarono per sempre Cortona. Erano mezzadri. Mio padre aveva trovato lavoro come operaio alla Montecatini, Vercelli. Cortona era ed è un luogo incantevole, una piccola Firenze (ci han girato scene de La Vita è bella di Benigni). Sotto il borgo medievale c’è la Cortona etrusca. Si mangia bene – consiglio la ribollita e la chianina – spendendo poco. E poi c’è un cielo azzurro, perché il borgo (una volta città) è in collina. Ma la Cortona dei miei genitori e dei miei parenti, dove andavo a trascorrere le ferie d’estate, è quella contadina, della mezzadria, della povertà. Per mio padre fu meglio andare a respirare i veleni della fabbrica che fare… non dico la fame, ma quasi. Non li ricordo i miei primi due anni, vissuti nella campagna cortonese, ma li porto dentro me come un segno distintivo. Mi sento figlio di un’Italia contadina che non voleva togliersi il cappello quando arrivava il padrone. Erano i fantastici anni Sessanta, ma se il raccolto era andato male o se eri comunista, il padrone, se voleva, ti cacciava, e succedeva. Quando mi addormento, spesso immagino di camminare per le strade di Cortona, di sentirne i profumi. Ma c’è anche “l’altra Cortona” che convive nei miei ricordi, quella delle mie origini, quella di mia madre che, prima di me, perse una bambina perché faceva lavori pesanti, da uomo; quella che mi vedrà sempre impegnato nel sociale, per lo meno quando scrivo, ma non solo.

- Vicolo del precipizio racconta il rapporto che Tiziano ha col mondo editoriale. Credo che tu ti portassi dietro da molto il desiderio di un libro dove raccontare i tic, le fragilità e certi aspetti perfino grotteschi della repubblica delle lettere italiane.

Io credo che il mondo dell’editoria sia sempre stato triste: il cuore delle case editrici – ma ci sta, è il gioco delle parti – è essenzialmente “a forma di salvadanaio”, direbbe Fabrizio de Andrè. Ci sta anche che ci siano marchette e scambi di favori. Ora, essendo io uno scrittore di serie C che vive ai margini, posso perlomeno prendermi la soddisfazione (oddio) di non tacere, di dire quel che penso. In Vicolo del precipizio ho, semplicemente, scritto quel che ho sempre scritto sul blog e pensato. Per esempio, penso tutto il male possibile degli scrittori, magari di sinistra, ma con la puzza sotto il naso. Bravi a lanciare strali e a pensare al loro portofoglio. Nella mia vita ho fatto di tutto, sette anni in fabbrica per esempio. Bene, c’era più dignità. Davanti al padrone c’erano, certo, i ruffiani e i leccauculo ma c’era anche chi – e magari leggeva solo la Gazzetta dello Sport – la testa non l’abbassava. Una volta una agente letterario mi ha detto: voi scrittori sareste disposti a tutto pur di pubblicare. Io ho pensato (senza dirle nulla, non mi avrebbe creduto): c’è un limite, si chiama dignità. Me lo insegnò mio padre quando andò via da Cortona: meglio la fabbrica che togliersi il cappello quando arriva il padrone. Spero d’essere stato un buon figlio, insomma. Sgomito anche io. Ma non mi cavo il cappello davanti a editori, editor, critici. E mi fa piacere che pochi altri – faccio il nome di un caro amico, morto da poco, don Luisito Bianchi – la pensino come me.

Un estratto del romanzo:

“Quando ripenso alla mia vita mi giro dall’altra parte. Penso ad altro. Così facendo, rischio di dimenticare persone e storie che invece vanno ricordate perché, alla fin fine, l’hanno resa più bella, la mia vita. Vanno coltivati i ricordi, ha ragione il babbo, che si è fatto vecchio. Già lo so: rincorrendoli, mi farò male.

Quando Tito tornò al paese dopo il servizio di leva sembrava un altro Tito. Si sentiva un cittadino, ormai. Vederlo in giro per Cortona con cravatta su camicia bianca a manica corta, anziché in canottiera come succedeva prima, faceva una certa impressione. Come vedere uno che cammina nudo per strada. «Oh madonnina, ma che gli è successo a Tito?».
Da militare – l’aveva fatto al nord, a Casale Monferrato – aveva preso la quinta elementare ed era stato l’attendente di un colonnello. Era diventato insomma un ometto educato.
Niente più rutti o scoregge con gli amici, la sera tardi. Non aveva però smarrito il vezzo a bestemmiare. Magari i primi giorni ci avrà provato, ma quando uno nasce tra moccoli di classe l’abitudine non la perde, è più facile smettere di fumare. Ma che fosse un altro Tito venne fuori quando cenò, come una volta, di nuovo in famiglia. Ora: che a lui fosse venuta la mania di mangiare a bocca chiusa, oddio, potevano anche essere affari suoi, ma quando rimproverò tutta la famiglia dicendo che pure loro dovevano farlo, la cena finì male e a male parole.
Viveva con i genitori e due fratelli minori in un casolare non distante dal paese, producevano olio e un po’ di vino.
«Ma in ’sto posto, Casale Monferrato, rincoglioniscon la gente?» si lamentava il suo babbo. Perché da quando era tornato spaccava meno legna e passava troppe ore al bar e in paese, Tito. Qualcuno disse che aveva perso la testa per la figlia del “suo colonnello” e che non vedeva l’ora di andare a vivere al nord.
L’avesse fatto.
Una sera di luglio, tra seggiole e tavolini con gente che discorreva, fuori dal bar – mentre la voce di Luigi Tenco al juke-box cantava Ho capito che ti amo quando ho visto che bastava un tuo ritardo… – Tito si avvicinò all’Andreina con una bottiglia di chinotto e – così dicono – con le parole giuste per convincerla a seguirlo nel bosco.
Qualcuno, nei giorni e nei mesi che seguirono, mise in giro la voce che Tito non aveva sussurrato nulla di originale all’Andreina ma, essendo molto intonato, si sarebbe limitato a fare il verso alla canzone del juke-box, Ho capito che ti amo…
Una certezza, in ogni caso, c’è: chi era presente vide che lei montava sulla Guzzi nera che Tito aveva appena comperato, stringendolo forte. Cosa successe poi di preciso non si sa. Perché la vita non è quella che ci raccontano i film o tanti libri: la vita ti piglia in giro, e ci son più ombre che luci.”


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