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Vincenzo Cerami, “una vita di parole”: intelligenza, lucidità e ironia sui fattacci del mondo

Creato il 17 luglio 2013 da Criticaimpura @CriticaImpura
Vincenzo Cerami

Vincenzo Cerami

Di ANTONELLA PIERANGELI

“La passione di scrivere la vivo tra quattro mura e si esaurisce tutta nel piacere di raccontare: senz’altro scopo che dar soddisfazione alla mia curiosità per le azioni degli uomini”

Vincenzo Cerami

Ho saputo da mia madre della morte di Vincenzo Cerami. Mi ha chiamato per dirmelo cercando, forse inconsapevolmente, di trovare un modo meno crudo e doloroso delle semplici e un po’ logore parole che si usano in questi casi.

Già, perché lui di questa sequela infinita di prosaiche giaculatorie “è scomparso, ci ha lasciato, è venuto a mancare, è morto…” avrebbe sicuramente riso analizzandone le falle stilistiche, con la sua bella risata calda, vigorosa come la sua stretta di mano.

Tutto il cangiante caos dell’esistenza, infatti, con le sue forme di espressione risibili, ora drammatiche ora incomprensibili, nell’estrosa e ironica euforia che dominava la sua visione della realtà, diventavano in un lampo materia di “parola”, una parola affilatissima ma sempre popolare, dissacrante ma necessaria.

Ho avuto il piacere di conoscere Vincenzo Cerami molti anni fa, quando cominciai i miei studi su Pier Paolo Pasolini e quando sua moglie Graziella Chiarcossi, nipote di Pier Paolo, filologa e allieva di Aurelio Roncaglia, nonché relatrice della mia tesi di laurea, seguiva il mio lavoro di appassionata neofita con attenzione e pazienza. Dunque mi capitava spesso d’incontrarlo nelle mie incursioni pasoliniane a casa sua e a volte, nell’attesa che Graziella controllasse o revisionasse i materiali che le sottoponevo, non era raro scambiare con lui quattro chiacchiere quando smetteva di lavorare e andava in cucina a prepararsi un caffè.

Fu allora che mi resi conto che quell’uomo dai profondi occhi blu che la mia timidezza rendeva altissimo, era in realtà un uomo profondamente semplice, schivo, simpatico nella sua aria un po’ burbera.

Un giorno, mentre raccoglievo le mie carte e mi preparavo ad andarmene, mi fissò con aria indagatrice e mi fece: “Ti piace davvero questo lavoro? Voglio dire i manoscritti, le carte e le indagini sui testi?” Alla mia risposta affermativa mi guardò divertito e mi disse: ”Sì, Antonella, ma l’amore? Tra la letteratura e la vita vince sempre la vita.”

Certo, vince la vita, forza disgregatrice ma vivificante che Cerami con il suo affabulare popolato di fisicità acrobatiche e surreali, di fantasmi del quotidiano sempre più invischiati nella materialità impura della realtà, ha sempre reso iconica, funambolica, clownesca.

Fin dagli esordi con lo straziante e feroce romanzo Un borghese piccolo piccolo, che Pasolini ebbe a definire “atroce”, ingaggia infatti un confronto senza esclusione di colpi con le nefandezze e le meschinità raggelanti che abitano il mostro-uomo, servendosi di una scrittura lucidamente dolente, ossessionata dall’esigenza della parodia, dello sberleffo cui nessuno e nulla può sottrarsi.

Perfino i sogni nella geometria fantastica del suo ingegno sono portatori di vaticini, lucidi e funzionali motori di una fabula surreale, la vita, che neanche la morte può rendere immobile e muta.

Viene in mente il suo grande maestro, quel Pasolini ventottenne che in una scuola disastrata di Ciampino gli cambiò per sempre “testa e cuore”, e una favola stralunata spalmata di colori sgargianti e improbabili con una filosofia rivelata nel cartello che appare alla fine de La terra vista dalla luna: “Essere morti o essere vivi è la stessa cosa”. Ironia sublime o scambio materico? O forse un invito ad essere realisti e magici al tempo stesso, giocosi,  stranianti, lunari quel tanto che ci permetta di allontanarci da un mondo ridicolo di burattini immobili e distruttivi. Questo insegnamento Cerami l’ha interiorizzato e tradotto dalla memoria personale ed emotiva in un’ esperienza letteraria ed esistenziale unica e irripetibile.

In fondo nulla può resistere all’usura del tempo senza rovesciare la materia tragico-patetica dell’esistenza e la scrittura limpida e la sua forza immaginativa testimoniano proprio questo: lo sforzo al culmine del quale si avverte la stoccata farsi strada verso le carni del cuore ogni volta che lo sguardo indugia sull’umano, su quei fattacci del corpo e della mente che uno scrittore deve lasciare entrare dentro di sé senza opporre resistenza, per poi nullificarne la carica anestetizzante e mostrarli al mondo nel loro vero volto.

Certo, lo scrittore deve agire velocemente, deve potersi immergere nella folla, cogliere la gente, catturare il contingente e il transitorio, essere dentro al mondo, animato da quella curiosità infantile che Cerami definiva come la molla della sua scrittura.

Un narratore di storie deve saper inoltre catturare il grottesco dei tanti corpi estranei cupamente e subdolamente annidati nelle pieghe della “normalità”: riconoscere le insidie del mostro che giace e sonnecchia livido in ognuno di noi è infatti un’arte in via di estinzione, specialmente in letteratura.

Allora è proprio quando questo riconoscimento avviene che il rapporto tra la realtà della scrittura, “una vita di parole” come amava definirla Cerami, i suoi linguaggi e, soprattutto, la contesa inumana tra la degradante quotidianità e la dimensione folle e surreale della creazione artistica riescono esplicitamente a creare la magia della fascinazione, in cui l’arte mostra sempre un certo candore che ci tocca per la vita.

Il singolo che abbraccia il mondo in un vortice di disincanto e passione per l’umano: “A Pasolini devo tutto – disse una volta – e senza di lui non avrei mai saputo guardare il mondo con pietà e severità insieme. Ma di Pier Paolo mi mancherà sempre il dono inestimabile di vedere la vita come una grande poesia collettiva”.

Il dono lo avevi Vincenzo, credimi, e il tuo sguardo sul mondo adesso parla per te.

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