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Vita in salita.

Creato il 25 maggio 2014 da Emialzosuipedali @MiriamTerruzzi

C’è un rituale nelle salite dove passa il ciclismo che si ripete ogni volta, come una quotidianità ritrovata tra amici che si vedono dopo un po’ di tempo e capiscono che sono sempre gli stessi, si vogliono bene ancora come prima e continueranno a volersene.
Oropa, nel silenzio di un sabato mattina, si prepara al Giro d’Italia. La gente sale per i tornanti con gli zaini in spalla, le bandiere, gli striscioni sotto braccio. Un pellegrinaggio quieto. Perché sì, è vero: le salite sono un po’ come una religione. Hanno i loro riti e i loro sacrifici. Le salamelle a bordo strada, le bottiglie di birra ghiacciata semivuote in mano e le canottiere sudate, i piedi doloranti. Mancano ore e ore al passaggio dei ciclisti, le transenne non sono ancora state montate, qualche lenzuolo sventola nel sole e in quell’aria fresca che sta portando nuvole nere. Due ragazzi con un secchio di vernice bianca e un rullo da imbianchino stanno scrivendo qualcosa sull’asfalto granuloso: “Vita in salita”.
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Per Marco Pantani la salita era la vita stessa. Quelle curve che salgono arcigne hanno sentito il boato della gente che lo aveva visto scattare, hanno sentito il silenzio della sua bicicletta. Si risorge sempre in silenzio, anche se attorno c’è rumore. Si risorge senza parole perché il coraggio è muto. Era tornato alla sua vita dopo le sfortune, anche quel giorno, dopo l’incidente con la catena. Oropa è stato un pellegrinaggio di rabbia anche per lui.
E a pensarci bene il ciclismo è sempre in salita, anche quando la strada spiana. E’ sempre un combattimento tra l’anima che vorrebbe arrivare e il corpo che fa fatica, l’umanità che reclama la sua parte. A pensarci bene la salita non porta via solo le gambe ma anche la testa. Il dolore non fa pensare a niente altro. Così era per Marco, il male fisico portava via quello morale, gli dava forza, era il suo viatico per arrivare da solo, per staccare tutti e fare il vuoto.
Su, per la strada verso il santuario, Marco è ancora negli striscioni, scritto sull’asfalto, vernice bianca nella memoria sempre più granulosa.

La gente si accampa attorno alle transenne, mangia un panino e guarda il cielo che, a parte qualche raggio di sole, è sempre più grigio. Sperano che non arrivi la pioggia perché manca ancora tanto al passaggio ma stoicamente tengono il loro posto. Non si muoverebbero da lì nemmeno con l’acquazzone. Fa freddo e con il mio compagno di viaggio inganniamo il tempo mangiando, tra uno scomodo guard rail e una transenna proprio sotto il cartello dei meno trecento metri. E’ il solito rituale, la solita attesa. Infinita eppure piena. E’ il senso di tutto. Il ciclismo ti insegna anche che per le cose belle bisogna aspettare. Per le cose belle bisogna avere pazienza, essere tenaci, non mollare, restare per tutto il tempo necessario.
Cinque ore dopo, quando passano le prime moto, quando tutti si affacciano per scorgere le bandierine della macchina di inizio gara, ricomincia l’incanto crudo di questo sport. Ogni volta, tutte le volte, anche qui a Oropa dove la gente si è riunita come in quel giorno, come quando Marco si è mangiato posizioni ad una ad una, in pochi chilometri. E’ lo stesso incanto: la fatica che arranca, il sudore e la gente che si risveglia, che urla, che applaude. L’elogio al dolore e al coraggio. Sono istanti, passano i primi poi arrivano tutti gli altri, alcuni vicini, alcuni più staccati. Oropa ha il suo verdetto, ha scelto lei anche questa volta. Quando passa Fabio Aru, sulle sue gambe lunghe e magrissime, con la bocca spalancata per lo sforzo, tutto proteso in avanti, si alza un boato. E’ un istante che dà i brividi, mille e mille voci che diventano una. Un istante che vale l’attesa infinita. Passa e va, come tutti i momenti e non esistono parole per dire che cos’è stato. Come spiegarlo? Il ciclismo è come la poesia, non si spiega, perderebbe d’intensità. Ha solo bisogno di essere vissuto, di guardare quei ragazzi salire e sentire che cosa succede dentro. Le salite bisogna ascoltarle, come tutte le cose belle.
Aspettiamo gli ultimi che arrivano mentre gli altri scendono, mentre qualcuno comincia a scavalcare le transenne e ridiscendere a festa finita.

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Poi risaliamo, facciamo slalom tra le ammiraglie che scendono, tra la gente che risale alle macchine, un fiume con la corrente in due direzioni. Ogni tanto si fa largo qualche ciclista che ha deciso di raggiungere in bicicletta i pullman che li aspettano ai piedi della salita. Hanno le facce stanche e sconvolte dalla fatica, gli occhi persi di chi ha dato tutto. Sono belli perché sono veri. La bellezza autentica non ha le formule che crediamo noi. E’ fatta di qualcosa che non si può ricreare, che si deve afferrare quando c’è. Bisogna afferrare tutto al volo, quelle espressioni sfiancate dalla salita, quelle biciclette che si fanno largo tra chi oramai ha solo voglia di tornare a casa. Anche loro hanno voglia di tornare in albergo, di abbandonare le gambe ai massaggi, di prepararsi alla cena e poi al letto.
Perché il giorno dopo li aspetta Montecampione. Una vita in salita. Sempre sui pedali, sempre pronti a quella passerella tra la gente che aspetta il loro dolore per applaudirli, per dire che arrivare fino a lì ne è valsa la pena.
Torna il silenzio, sbuca un ultimo sole dietro l’imponente santuario grigio, bacia l’irreale piazza deserta, i palloncini rosa appesi ai lampioni. C’è solo una notte che separa il Giro da un’altra tappa, da un altro arrivo, da un’altra salita. Oropa ritorna a essere quella di sempre. Il ciclismo, però, l’ha marchiata per sempre da quel giorno del novantanove

Anche mentre scendiamo verso Biella per tornare a casa, quei muri parlano di Marco, di un ciclismo che aveva conquistato tutti, di biciclette che soppiantavano i palloni da calcio. Forse tutti gli rimproverano di essersene andato troppo presto. Ma gli scalatori non sono come gli altri, hanno bisogno di salire per sentirsi bene, hanno bisogno di scattare quando tutti gli altri arrancano. Per ritrovare sé stessi. Quel silenzio attorno a tante voci non c’è da nessuna parte. Da solo e con gli altri, la solitudine mischiata alla felicità.

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