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V.La moneta unica - Parte 1

Creato il 13 maggio 2012 da Kris @zinfok

Quinta parte (che ho diviso in due), la più sostanziosa, per chi ha il coraggio di leggersela tutta d'un fiato aspetti anche la seconda! (Puntata precedente: IV.Il "non sistema monetario internazionale")
V.La moneta unica - Parte 1

La moneta unica

5.1 Il danno

In particolare, questa non è la strada seguita finora nella costruzione dell’Unione economica e monetaria (Uem) europea. Si arriva così all’ultimo capitolo, il più doloroso per l’autore in quanto cittadino, ma il più carico di soddisfazioni per l’economista. Perché una cosa è certa: il collasso della zona euro, rinviato, ma probabilmente inevitabile, è innanzitutto un’amara vittoria della professione economica, che attraverso i suoi esponenti più qualificati aveva messo in guardia contro i pericoli di un simile progetto, decisamente eccessivi rispetto ai benefici attesi.
Ci vuole poco a spiegarlo. Il beneficio atteso di una unione monetaria è ovvio: la riduzione dei costi di transazione dati dall’incertezza del cambio. Vige un’illusione ottica: questo vantaggio sembra rilevante, ed è quindi spendibile politicamente, perché è “vicino” al cittadino. Ma l’impatto macroeconomico è minimo[33]. In effetti, dal punto di vista macroeconomico l’idea stessa di unione monetaria è contraddittoria. A rigor di logica, se un gruppo di paesi avesse istituzioni, politiche e fondamentali macroeconomici perfettamente allineati, sarebbero tali anche i rispettivi tassi di cambio, e i costi della loro incertezza sarebbero trascurabili[34]. L’unificazione monetaria si rende quindi necessaria solo laddove i sistemi economici considerati non sono omogenei e non esistono forze che tendono a far convergere spontaneamente le rispettive valute. In altre parole, l’unificazione monetaria si rende necessaria solo laddove è dannosa, cioè solo laddove implica la rinuncia a un elemento di flessibilità (quella del cambio) utile per assorbire shock o compensare divergenze strutturali. Per questo la teoria delle aree valutarie ottimali (AVO) è esplicitamente impostata in termini di riduzione del danno, e la scienza economica ammette che la scelta dell’unificazione monetaria risponde a logiche di tipo politico, le sole in grado di giustificarla, nonostante essa venga spesso presentata (slealmente) agli elettori come una scelta di carattere tecnico-economico[35]. La scienza economica dice che la rigidità introdotta abbandonando la flessibilità del cambio deve essere compensata in altri modi, e ne indica molti: una maggiore mobilità dei fattori di produzione (come sa bene il Sud dell’Italia), una maggiore flessibilità dei salari (come sta imparando la Grecia), una maggiore diversificazione produttiva (che aiuta il paese a superare difficoltà specifiche in un determinato settore industriale – un criterio che, guarda caso, sfavorisce ancora una volta le piccole economie periferiche). Se questo manca, occorre almeno che i tassi di inflazione fra i paesi membri convergano: altrimenti i paesi a minore inflazione, potendo offrire beni a prezzi sempre più convenienti, andranno in surplus, diventando esportatori di merci e quindi di capitali verso i paesi a maggiore inflazione, che a loro volta diventeranno finanziariamente fragili (perché importatori di capitali). In assenza di un simile allineamento, bisogna che le istituzioni che governano l’economia siano progettate per poter ovviare “a valle” agli squilibri regionali, prevedendo un sistema efficiente e politicamente condiviso che in caso di crisi consenta trasferimenti dalle zone in espansione a quelle in recessione: si chiama integrazione fiscale, ed è quanto ha contribuito a tenere in piedi per 150 anni un’altra unione non particolarmente felice dal punto di vista economico, quella italiana, a prezzo di ovvie tensioni politiche[36].
Inutile ricordare che in Europa non c’è nulla di tutto questo. Mercati del lavoro e sistemi previdenziali sono disomogenei, il che spiega perché l’integrazione monetaria non ha portato a una convergenza dei fondamentali, ma ha solo facilitato il finanziamento degli squilibri in una specie di “Bretton Woods II” alla rovescia[37]: mentre a livello globale è il paese più povero (la Cina) a finanziare la propria crescita export led prestando fondi a quello più ricco (gli Stati Uniti), a livello regionale è il paese più ricco (la Germania) che finanzia la propria crescita export led prestando fondi ai paesi più poveri (quelli periferici dell’eurozona). Questi hanno così visto aumentare il proprio debito estero, mentre quello pubblico diminuiva, o restava stazionario, a riprova del fatto che la crisi trae le proprie origini dall’indebitamento dei settori privati della periferia (Fig. 2). Al primo shock importante, il sistema, finanziariamente fragile e irrigidito dalla fissità del cambio e da regole fiscali poco sensate, è andato in pezzi: l’intervento pubblico a sostegno del sistema finanziario ha trasformato il debito da privato a pubblico, anzi, pardon, “sovrano”, e ora motivi di convenienza politica suggeriscono di ignorare il fatto che nel primo decennio dell’euro le finanze pubbliche dell’eurozona si erano in effetti consolidate, e che i problemi sono sorti per l’irresponsabilità della finanza privata, che ha prestato a chi evidentemente non poteva restituire, per motivi non dissimili a quelli evidenziati già da Keynes[38]. Tutto prevedibile, tutto previsto. Rudiger Dornbusch aveva avvertito che, trasferendo il peso dell’aggiustamento dal cambio al mercato del lavoro, l’euro avrebbe condannato l’Europa a recessione e disoccupazione, mettendo alle corde in particolare l’Italia; Martin Feldstein aveva criticato come particolarmente dannosa l’assenza di procedure formali di uscita dall’eurozona, che rischiava di condurre a una accresciuta conflittualità intra-europea; perché, come diceva Paul Krugman, l’euro non è stato fatto per rendere felici tutti, ma per rendere felice la Germania, e, come incalzava Martin Feldstein, l’aspirazione francese all’uguaglianza è incompatibile con le aspettative tedesche di egemonia. E se questi problemi non vengono risolti, passare all’unione monetaria, concludeva Dominick Salvatore, è come mettere il carro davanti ai buoi[39]. Ma in Italia mettere il carro davanti ai buoi viene ancora spacciato da molti per “visione”. A pagamento.
  Figura 2 – L’incremento del debito pubblico e di quello estero nei paesi periferici dell’eurozona fra il 2000 e il 2007, espresso in punti di Pil. La figura mostra che (con l’unica eccezione del Portogallo), nel periodo pre-crisi tutti questi paesi hanno ridotto il debito pubblico (Irlanda, Italia, Spagna), o lo hanno mantenuto stazionario (Grecia), mentre in tutti questi paesi è aumentata l’esposizione finanziaria verso l’estero, che quindi traeva origine dal settore privato (come nota De Grauwe, op. cit.). I dati confermano che la genesi della crisi attuale ha poco a che fare col debito “sovrano”.

5.2 Le regole che ci sono...

Il costo di questa “visione” è reso salato dalle regole che governano l’eurozona, regole che aggiungono asimmetria e rigidità a un sistema già di per sé indebitamente sclerotizzato dall’abbandono della flessibilità del cambio. Asimmetria e rigidità non fondate nella teoria economica e quindi puramente ideologiche. Ideologia, aggiungo, che trapela sia dalle regole che l’unione si è data, sia da quelle che non si è data. Cominciando da quelle che si è data, tutti hanno sentito parlare dei criteri di convergenza di Maastricht: per entrare, e poi per restare, dentro l’eurozona, occorre (fra l’altro) che il rapporto fra deficit pubblico e Pil rimanga sotto al 3%, mentre quello fra debito pubblico e Pil deve essere inferiore al 60%[40]. La convergenza verso questi criteri è stato il “tormentone” degli anni ’90. Rimane un dato fondamentale: il requisito che i paesi appartenenti a un’unione monetaria debbano “convergere” verso dei comuni parametri fiscali non è fondato in alcuna teoria economica. In particolare, la convergenza fiscale (cioè il fatto di avere tutti lo stesso rapporto deficit/Pil) non è un requisito delle aree valutarie ottimali, che richiedono invece integrazione fiscale (cioè la possibilità di trasferire rapidamente risorse dalle aree in espansione a quelle in recessione). Un semplice riscontro ce lo conferma: la teoria delle aree valutarie ottimali è stata formulata nel 1961 da Robert Mundell[41], ma se si effettua sulla base dati bibliografica EconLit una ricerca con le chiavi “convergence” e “currency area” il lavoro scientifico più antico risale al febbraio 1992, subito dopo la firma del Trattato. Chiaro, no? L’idea che in un sistema reso rigido dall’abbandono della politica valutaria i problemi si risolvano ingessando anche la politica fiscale era tanto assurda da non poter venire nemmeno a un feticista del “controintuitivo”[42]. In effetti, è stata la politica a dettare l’agenda all’economia (e non il contrario, come ora la politica vorrebbe far credere). E l’economia ha raggiunto abbastanza presto la conclusione che le regole di convergenza fiscale, oltre a essere indebitamente stringenti in termini di sostenibilità delle finanze pubbliche[43], erano controproducenti perché incompatibili con il tasso di crescita di lungo periodo dell’economia europea, perché limitavano lo spazio di manovra dei paesi in risposta a shock, e infine perché se da una parte il loro rispetto avrebbe determinato l’annientamento fiscale (fiscal overkill)di alcuni paesi, dall’altra il mancato rispetto avrebbe minato la credibilità dell’intero Trattato[44]. Credibilità puntualmente compromessa dal fatto che la regola del debito non è stata applicata (perché applicandola si sarebbe dovuto lasciar fuori il Belgio, un paese appartenente all’area del marco), e dal fatto che il primo paese a violare la regola del deficit (nel 2002) è stato quello che aveva più insistito per imporla: la Germania[45]. Che fare la voce grossa rischi di rendere poco credibili è un dato dell’esperienza di ogni genitore assennato. Così come è esperienza di ogni insegnante che atteggiamenti da “primi della classe” minano la coesione del gruppo. E immancabilmente il Trattato di Maastricht, scritto dai “primi della classe”, premia questi atteggiamenti, ponendo i germi della disgregazione futura dell’Unione Europea. Ciò avviene stabilendo che possano accedere all’Unione solo i paesi che hanno un tasso di inflazione non superiore di più di 1.5 punti alla media dei tre “best performing” (i primi della classe, appunto). Il requisito che i tassi di inflazione dei partecipanti siano uniformi è giustificato e razionale, lo abbiamo detto sopra, ma la regola adottata ha un problema: è asimmetrica. Sposando il principio semplicistico che “l’unica inflazione buona è quella morta”, Maastricht attribuisce la patente di “primi della classe” ai paesi con l’inflazione più bassa. Ora, mentre la teoria economica non fornisce un credibile sostegno all’idea che chi ha l’inflazione più bassa sia per forza “migliore”[46], d’altra parte è certo che in una unione monetaria chi tiene la propria inflazione sistematicamente al di sotto di quelle degli altri sta praticando una svalutazione reale competitiva. Detto in altri termini: la razionalità economica vorrebbe che, in un contesto nel quale una banca centrale indipendente fissa un obiettivo di inflazione, venisse “punito” non solo chi se ne discosta al rialzo, ma anche, simmetricamente, chi se ne discosta al ribasso, perché sta attuando una politica beggar-thy-neighbour. Ed è proprio questo l’obiettivo della Germania fin dal secondo dopoguerra, per ammissione esplicita degli stessi responsabili della sua politica economica. Già nel 1951 il presidente della futura Bundesbank, Wilhelm Vocke, affermava che “incrementare le esportazioni è vitale per noi, e ciò dipende dal mantenimento di un basso livello di prezzi e di salari... Mantenere il livello dei prezzi inferiore a quello degli altri paesi è l’obiettivo principale dei nostri sforzi[47].” Non volete andare così indietro nel tempo? Allora leggete sul Corriere della Sera del 4 dicembre 2011 l’intervista a Roland Berger, consulente del governo Merkel: sono i “sacrifici” dei lavoratori tedeschi fra il 2000 e il 2010 che hanno permesso ai prezzi dei prodotti tedeschi di diminuire del 18.2% rispetto a quelli dell’eurozona, aumentando competitività ed esportazioni tedesche. Da 60 anni a questa parte la politica economica tedesca persegue il current account targeting: l’obiettivo dichiarato è quello di avere sempre un po’ meno inflazione degli altri, per poter essere sempre in surplus e accumulare crediti verso il resto dell’Europa. Che sono debiti (per lo più privati) del resto dell’Europa. Questa non è la logica di una unione.

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