Quando al ginnasio studiai il verbo politematico ὁράω (orào) imparai che la forma οἶδα del perfetto vuol dire sia io “ho visto” che “io so”. Mentre scrivo vado riflettendo su quello che, a mio avviso, è il senso dello studio delle lingue del mondo classico. Come mi ha fatto notare una mia carissima amica, il Greco e il Latino non mi interessano per sfoggiare citazioni strabilianti per chi ascolta; anzi, allorché l'erudito di turno infiora il suo discorso di citazioni latine mi sembra di vedermi comparire d'innanzi il povero Renzo che mi sussurra
ma che vuole che ne faccia del suo Latinorum ?
No, non è per questo che ho studiato il Latino e il Greco io!
Del resto ho frequentato il liceo quando la scuola gentiliana difatti era ormai in crisi, nel tempo in cui la solida biblioteca, dove si era certi di apprendere il sapere universale, stava già andando in pezzi, cedendo il posto ad un insegnamento - apprendimento di frammenti più o meno luccicanti e preziosi.
Eppure il segno di quelle lingue è nel mio modo di essere, e di cercare. Οἶδα “io vedo e so”. E proprio qui è il nodo. Nel senso della radice *wid che, tra l'altro, dà anche origine alla parola “idea“ e a tutti i suoi derivati. Io “vedo e so” . È negli occhi il principio del sapere.
Perciò ho avuto come un sussulto quando ho letto della scoperta della funzione rilevante che assumono i neuroni specchio nei processi della conoscenza. Gli occhi come specchio. Specularità del mondo negli occhi ed empatia. È un modo di conoscere immediato. Il mondo circostante entra negli occhi e io lo riconosco in me. Poi comincia il tragico del destino umano: “esprimersi”, “emettere" questa conoscenza fulminea dello sguardo. C'è nella lingua greca un altro vocabolo, (più famoso questo nel suo duplice significato): λόγος (lògos) = “pensiero” e “parola”. Il destino tragico è in questo passaggio dalla luce fulminea di οἶδα “io vedo e so” al processo del λόγος = “pensiero” e “parola”, in latino ratio ed oratio, secondo la traduzione di Cicerone (De Oratore, I, 50). La ratio implica un ordine cosciente quasi un distillare della mente che deve tra-durre nell'oratio quanto è stato visto e conosciuto simultaneamente. Ora, secondo il senso che ha per me la conoscenza delle lingue classiche, mi affiora alla mente un altro vocabolo che significa “vedere”, μύω = “vedo con gli occhi chiusi”, dal quale deriva anche la parola “mistero” con tutto il suo campo lessicale. Da tempo mi chiedo se possa ricollegarsi a μύω anche μύθος (mythos) = mito, vocabolo di etimologia oscura. Μύθος è di significato affine a λόγος, ma il “pensiero” è quello “immaginativo – fantastico” e la parola è “favolosa”. Come se οἶδα “io vedo e so”, secondo il procedimento della specularità del mondo negli occhi si traducesse in un immediato μύω = “vedo con gli occhi chiusi”, (io nel pensier mi fingo), e si facesse ποίησις (pòiesis) di μύθος (mythos).
Ecco è questo il vedere nel sogno, il vedere del poeta , che secondo il mito è cieco nella luce del mondo delle apparenze, forse perché i suoi occhi sono stati accecati dalla luce della verità una volta che l'ha contemplata. Ma gli occhi che guardano nella notte sono occhi che hanno posseduto per un attimo il senso dell'universo.
Al poeta allora tocca vedere e conoscere nel buio il mistero che solo il mito sa raccontare.
Possa la mia flebile parola sussurrare un barlume di questo senso!