Magazine Cinema
"13:26, enuncio di nuovo le mie teorie.
1: la natura parla attraverso la matematica;
2: tutto ciò che ci circonda si può rappresentare e comprendere attraverso i numeri;
3: tracciando il grafico di qualunque sistema numerico ne consegue uno schema. Quindi ovunque, in natura, esistono degli schemi.
E allora parliamo della Borsa, di quell'universo composto da numeri che rappresenta l'economia globale, milioni di mani che lavorano, miliardi di cervelli, un'immensa rete umana che grida alla vita: un organismo, un organismo vivente. La mia ipotesi: anche nella borsa esiste uno schema, ed è proprio davanti a me, nascosto fra i numeri: è sempre stato lì. 10:18, premo invio".
Figlio di una matematica che si è fatta (o è sempre stata) narrativa, inseguito da una macchina a mano che non lascia scampo, fino alla morte, oltre la morte. "Pi greco" è l'esordio di Darren Aronofsky (e, dopo "The Wrestler", la sua opera di gran lunga più interessante) in un bianco e nero vertiginoso, quasi corporeo, che agisce sul protagonista come se fosse un luogo fisico, in grado di costringerlo, schiacciarlo, abusando della propria densità.
Gioco-rimando di una narrazione divenuta inevitabilmente frattale: alla ricerca del vero nome di Dio, con capacità tecnico-visive straordinarie, Aronofsky gira a basso budget con uno stile secco, sporco, che riesce a far percepire la nausea, il dolore, perfino la puzza del luridume (del mondo in una stanza, di un corpo appassito e di una mente sempre sul punto di esser trapanata). Il primo Aronofsky, come " Eraserhead" di Lynch, come "Tetsuo" di Tsukamoto, come il primo Cronenberg o Svankmajer, crede prima di tutto in un cinema che agisca sulla sfera del tatto e dell'olfatto: i film devono prima di tutto toccare, ferire, agire sulla pelle, restituire l'odore di un disagio psicosomatico. In attesa di nuovi stadi di mutazione e di altri livelli di umanità...
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