Magazine Cultura
Non ha alcun senso parlare di piani di salvataggio. Non ha senso da un punto di vista economico. Non ne ha, tantomeno, da una prospettiva razionale.
Non ha alcun senso parlarne, mi fa quasi venire la nausea. Ma sono immerso da tali insensate fandonie, che non posso farne a meno. Last but not least, lo spettro del fallimento s'aggira tra noi tutti (sì, anche te che leggi e me che scrivo) e condiziona le nostre quotidianità.
Il nostro Paese è, come tutti gli stati occidentali, tecnicamente fallito da un bel pezzo. Ma sono solo io a saper fare il buon conto della serva?
Per decenni abbiamo finanziato in deficit dapprima gli investimenti. Successivamente, anche la spesa corrente. E fin qui ci siamo. Se abbiamo commesso la grave imprudenza di accendere per errore un telegiornale, conosciamo il concetto. Quello che ai più sfugge è il significato del concetto.
Banalmente, incamero ogni anno fiscale 100, ma spendo 103 (se va bene). La differenza la chiedo in prestito.
Una qualsiasi famiglia assennata troverebbe un simile sistema ripugnante, soprattutto se preso a modello in via consapevole.
Assume particolare valenza grottesca la circostanza che tale dottrina della rovina abbia quale riflesso (pavloviano, verrebbe da dire) un'allure di credibilità per "convincere i mercati" a continuare a prestare. Nient'altro che una sorta di ordalia di mistico affidamento sulle capacita reddituali di noi tutti sfigati appartenenti alla working class, altrimenti apostrofati "contribuenti".
Dei nostri redditi sono rimaste solo le monetine, debitamente ridotte all'osso dai satrapi d'occidente, in attesa di un non ancora identificato cavaliere orientale che ci salverà.
Ricordate tutti per cosa servirono le monetine di fronte all'hotel Raphael? &xfbml;
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