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0034 [A-B USO] Marco Omizzolo | I sikh dell’agro pontino

Creato il 03 dicembre 2012 da Wilfingarchitettura @wilfing
di Salvatore D'Agostino
da leggere insieme il points de vue di Martino Di Silvestro

L’agro pontino dopo la bonifica integrale del 1926-1937 voluta dal regime fascista si è trasformato in una ricca terra di opportunità lavorative prima per le allora povere e sovraffollate regioni del nord soprattutto del Veneto ma anche del Friuli e dell'Emilia, in seguito nel dopoguerra, in concomitanza con lo sviluppo industriale dell’area, quando arrivarono i lavoratori dal sud: dall'Abruzzo, dalla Sicilia e in prevalenza dalla Campania. Negli anni novanta, dopo la crisi del settore industriale e l’investimento intensivo nell'agricoltura e nell'allevamento, si sono aggiunti i braccianti extra-europei provenienti dai paesi del Nordafrica e dell'Africa sub sahariana e dai paesi asiatici come l'India, il Pakistan e il Bangladesh, e si è insediata una grossa comunità di sikh del Punjab una regione posta a cavallo della frontiera tra India e Pakistan.In questi decenni quindi questa ricca area geografica è stata una terra di opportunità per lavoratori provenienti da diverse province dell’Italia e dal mondo cambiando il paesaggio culturale e civico dell’agro pontino. Oggi queste differenti culture le vedi vivere e lavorare, con ruoli diversi, nei campi del pontino. Un territorio che ho voluto analizzare da una parte attraverso l’indagine diretta del sociologo Marco Omizzolo, che per due mesi ha lavorato insieme ai sikh ed è andato nel Punjab per capire meglio la loro cultura e dall'altra attraverso le fotografie di Martino Di Silvestro che da quasi dieci anni svolge una costante ricerca visiva su questo territorio.Più che un’analisi definitiva di un paesaggio complesso come quello dell’agro pontino, ho pensato a due diverse modalità d’indagine diretta sul luogo: quella scritta e quella visiva. A seguire l’intervista a Marco Omizzolo e in questa pagina i points de vue di Martino di Silvestro.



Salvatore D’Agostino Prima di conoscere la tua esperienza ti chiedo come possiamo raccontare ciò che ci succede sotto casa evitando l’enfasi della cronaca pruriginosa, la deriva ultra ecologista, il ricorso ad un passato mitizzato e mai vissuto, il luddismo elitario, la retorica dell'antiglobalizzazione, la chiusura localistica e l’indignazione inane scritta, firmata, attivata in rete?

Marco Omizzolo Semplicemente guardando ai fenomeni che circondano e caratterizzano il nostro quotidiano con un approccio metodologico scientifico e quindi laico, intellettualmente onesto, aperto all'interrogativo e sinceramente curioso, evitando risposte preconfezionate e semplicistiche. In questo senso, la migliore ricetta è l'immersione nel fenomeno da indagare, la riflessione colta e documentata confrontata con il quotidiano manifestarsi del fenomeno stesso, ascoltando dalla viva voce dei protagonisti considerazioni, opinioni, espressioni proprie del loro vivere. Sarebbe troppo facile raccontare, ad esempio, la migrazione secondo la formula abusata del migrante sempre in fuga dal suo mondo consumato da un sistema predatorio e inarrestabile. Ad un confronto attento con i fatti, generalmente, queste considerazioni non reggono e perdono di consistenza. La realtà è molto più complessa della teoria e per capirla bisogna scendere in strada e partecipare alla sua articolata evoluzione, dotandosi di strumenti di indagine scientifici, empirici e dialettici. Essenziale, in sostanza, è la logica della giustificazione, ossia criteri diversi attraverso i quali giustificare o meno l'insieme di asserzioni o ipotesi o teorie che si ritiene di adottare nell'analisi. Primo avversario di qualunque approccio retoricamente impostato è un approccio metodologico scientificamente fondato. La funzione del metodo è proprio quella di distinguere, più o meno nettamente, tra l'argomentazione e il discorso. Senza metodo scientifico, senza onestà intellettuale e senza confronto con il quotidiano, si scade facilmente, come dici tu, nell'enfasi della cronaca pruriginosa o nella deriva ultra ecologista.

Nel giugno-luglio del 2009 ti sei finto bracciante agricolo e per due mesi hai lavorato, accettando la stessa paga, con i braccianti quasi tutti migranti sikh dell’agro pontino. Che cosa hai visto?

La mia indagine è fondata sull'osservazione partecipante, ossia una tecnica di raccolta delle informazioni che presuppone di vivere, per così dire, dall'interno la realtà oggetto di studio, insediandosi in essa per un periodo mediamente lungo e utilizzando un approccio prevalentemente qualitativo di osservazione e di raccolta dati. Ciò significa che per comprendere la comunità sikh della provincia di Latina dovevo necessariamente inserirmi in essa, prendere parte a tutti i processi che la riguardavano, ivi compreso il lavoro. Per questa ragione ho vissuto per due mesi la condizione del migrante bracciante agricolo in terra pontina, vivendo le medesime condizioni che vivevano i migranti sikh. Ho assistito in questa fase a fenomeni sconcertanti per violenza e prepotenza. Dal sikh costretto a chiamare "padrone" il datore di lavoro e a fare due passi indietro e ad abbassare la testa quando si rivolgeva a lui, al licenziamento del bracciante che non si presentava per ragioni di salute, al pagamento di un salario in busta paga che comprendeva solo una settimana di lavoro quando se ne facevano quattro, al mancato pagamento, nei casi più fortunati, dell'ultima settimana di lavoro, per ragioni ignote. Il bracciante sikh viveva una condizione di asservimento e assoggettamento evidente, con poche possibilità di reagire, anche per la scarsa conoscenza dell'italiano. Ricordo che la stampa ha anche riportato casi di indiani trovati dalle forze dell'ordine in catene. Questo, in sintesi, quello che quotidianamente accade nelle nostre redente campagne, sotto il sole e gli occhi di molti e nell'indifferenza di troppi.

Una regola necessaria per l’imprenditore - non solo di oggi - è abbattere i costi della mano d’opera sia esso proprietario di una multinazionale o di un piccolo medio appezzamento di terra, l’economia – da secoli - si basa sullo sfruttamento della forza lavoro. Chi sono i padroni che sfruttano i sikh dell’agro pontino?

Si tratta generalmente dei discendenti delle famiglie di coloni veneti o friulani che vennero dal nord Italia, intorno alla metà degli anni trenta per bonificare la palude pontina. A questi si aggiungono imprenditori agricoli giunti dalla Campania, insediatosi in pianura intorno agli anni Ottanta. Non si tratta di generalizzare. Molti di questi compiono con passione e nel rispetto delle leggi il loro duro lavoro di imprenditori, in un settore strategico e complesso come quello agricolo. Si sommano però alcuni imprenditori che privi di scrupoli, con accento campano o veneto, sono responsabili dello sfruttamento e maltrattamento dei migranti, usati come braccia per la terra e non considerati come lavoratori, uomini, persone. La distanza tra questi pseudo-imprenditori e la legalità è la stessa distanza che passa tra una società civile e una barbara, illegale e simil-mafiosa.

Tra questi campani e veneti ci sono degli autoctoni dell’agro pontino?

Se per autoctoni intendi persone appartenenti a famiglie coloniche ma nati in pianura e sempre cresciuti in questa zona, direi proprio di si. Anzi, sono ormai la maggior parte. Sono i discendenti di quei coloni arrivati per cercare la terra promessa, prodigatisi nell'opera straordinaria di bonifica dell'agro pontino, terra eletta come luogo di residenza e di vita. Questi però sono ancora fortemente legati agli usi, costumi, linguaggi della loro terra d'origine, con la quale conservano legami economici e sociali assai forti, oltre ad un'evidente cadenza. Lo stesso vale per i campani, giunti più tardi, intorno ai primi anni Ottanta e insediatisi stabilmente in terra pontina. Anche questi conservano forti tratti identitari della terra e cultura d'origine nonché rapporti economici e sociali molto densi e diffusi. Quando impegnati in agricoltura, come imprenditori, attraverso cooperative agricole o meno, non di rado usano lavoratori sikh come braccianti che sottopongono a condizioni di lavoro gravi e salari indicibili. Personalmente ho riscontrato casi di sfruttamento e violenze sia da parte di "padroni" del nord sia del sud. Un ex equo che fa pensare.

L’accostamento dei termini barbari e mafiosi mi ricorda la differenza di senso che i media generalisti attribuiscono alla tangente e al pizzo, la tangente appare come un’operazione illegale non malavitosa quasi sistemica dell’uomo d’affare per bene, il pizzo si lega in modo indissolubile alla criminalità. Una differenza di contenuto inesistente poiché le due parole indicano delle transazioni di denaro date illegalmente a terzi per assicurasi e garantirsi l’operatività imprenditoriale nel territorio. La tangente del nord e il pizzo del sud caratterizzano la metastasi illegale del nostro paese.Perché è tollerata questa schiavitù sotto casa?


È possibile dare molte risposte alla tua domanda. Molti cittadini risultano totalmente indifferenti, distratti e distanti dal tema. Questi vedono i sikh, emerge con chiarezza dalle interviste, come tranquilli migranti impegnati in agricoltura, magari pericolosi solo quando alcuni di loro eccedono con alcolici e superalcolici. Li vedono girare in bicicletta sui bordi delle nostre strade, con turbanti colorati e pantaloni sempre sporchi di terra, ma passano indifferenti, senza suscitare particolare curiosità e interesse. Altri cittadini invece li considerano utili all'agricoltura. Il migrante, in questo caso, è strumentale alla produzione agricola e quindi indispensabile per l'imprenditore italiano che necessita di manodopera a basso costo, giustificato nei suoi comportamenti nei riguardi del bracciante sikh per via di una visione razzista del migrante stesso, inteso come colui che fugge sempre da condizioni di povertà massima, abituato a condizioni di lavoro estreme e a punizioni anche corporali, incapace di crescere nella scala sociale, adatto quindi allo sfruttamento in agricoltura e anche, a volte, felice per le condizioni che comunque gli verrebbero garantite in questo territorio.
«Sono abituati. Nel loro Paese non hanno quello che gli diamo noi e con i soldi che gli passiamo questi vivono bene nel loro Paese».
Questa è la frase ricorrente di alcuni imprenditori, pronti a giustificare comportamenti che sono generalmente indirizzati verso le classi più deboli, come appunto i migranti e le donne. Il punto è però per quale ragione forze dell'ordine, politica e magistratura, insomma gli organi dello Stato più territoriali, non intervengano per restituire legalità e dignità a centinaia di lavoratori e migliaia di persone. Perché tutto viene demandato ai sindacati e all'associazionismo, quando invece la risposta indispensabile al problema dello sfruttamento dei migranti sikh in provincia di Latina, è esattamente una risposta politica, oltre che giudiziaria? Le risposte sono molte anche in questo caso. Credo però ci sia, in qualche modo, soprattutto indifferenza al problema. I sikh, anche per la scarsa conoscenza della lingua, delle poche conoscenze amministrative e diffidenza, non denunciano, non si ribellano, non generano situazioni di conflitto. Dunque, se non si lamentano loro, perché occuparsene?

Quanti sono e dove abitano i sikh pontini?


Non esistono purtroppo dati ufficiali relativi alla presenza dei migranti sikh in provincia di Latina e quelli nazionali, propri di dossier assai qualificati, non disaggregano gli appartenenti al sikhismo dal dato generale della presenza degli indiani a livello provinciale. Anche questa condizione evidenzia l'arretratezza culturale di una provinciale che nei fatti risulta disinteressata al fenomeno, lasciandolo ingovernato. Secondo la mia esperienza, è bene però prendere il dato con tutte le precauzioni possibili, i sikh in provincia di Latina variano tra le 25mila e le 30mila presenze. Costituiscono la seconda comunità sikh italiana dopo quella di Novellara, sebbene esistano tra queste differenze sostanziali. La mancanza di dati quantistici ufficiali rende il lavoro di analisi e riflessione assai complesso, oltre a mancare nel fornire punti certi di riferimenti per la costruzione di policy adeguate.
I sikh vivono prevalentemente nelle città della costa pontina, come Latina, Sabaudia, San Felice Circeo, Terracina e Fondi. Sono poco diffusi nella parte retrostante, più montana e distante rispetto al loro retroterra culturale. Si sono insediati prevalentemente nelle abitazioni di piccoli residence in ambienti rurali, affittati a famiglie intere o a gruppi di sikh a volte anche numerosi. A Sabaudia esiste il caso più eclatante e importante. Un vecchio residence originariamente dedicato ad accogliere vacanzieri estivi, è stato, nel suo nucleo centrale, affittato quasi completamente dai sikh, sino a trasformarlo in una sorta di mini quartiere indiano sikh. In altre realtà italiane, come ad esempio in Emilia, il fenomeno non si presenta. Generalmente in quei luoghi si assiste a forma di residenza legate alla figura agricola del bergamino, tale per cui al mungitore della stalla, in questo caso sikh, viene riconosciuto, da parte del datore di lavoro, esattamente a ridosso della stalla stessa, un appartamento affittato a prezzi bassi o gratuitamente. Ciò comporta la frammentazione della comunità, ma anche un percorso volto alla inclusione assai più facile, esente dai fenomeni del caporalato intracomunitario e intercomunitario che invece è presente in provincia di Latina. Alcuni sikh pontini invece affittano mini appartamenti anche nei centri urbani, o assai più facilmente ex lavatoi-stenditoi che poi adibiscono ad appartamenti e in questi vivono con la propria famiglia. L'organizzazione rurale-urbana della comunità sikh risulta particolarmente interessante e densa di spunti di riflessione e di stimoli alla ricerca.

Come s’innestano – se s’innestano – i luoghi abitati dai pontini con quelli dei sikh? Qual è il loro senso urbano?


I sikh vivono in spazi socialmente tendenzialmente periferici, visibili solo per la loro estetica, lontani dai centri delle città e dai luoghi del potere classico. Vivono in residence "dimenticati" nella periferia rurale, spazi abbandonati dagli italiani e affittati loro per 550 o 600euro, in nuclei di 4, 5 o anche 6 persone. Sono i nuovi protagonisti di una ruralità che assume forme, caratteri culturali, dinamiche diverse rispetto a quelle tradizionali. Uno dei processi che storicamente investivano questi luoghi consisteva nella standardizzazione dei suoi abitanti verso una condizione sociale comune, omologando la loro relativa identità sino a farne quasi un'unica identità di quartiere. Esistono diverse realtà periferiche che, ancora oggi, sia pure in forme diverse rispetto al passato, sono arrivate, per il combinato disposto di emarginazione, omologazione e standardizzazione, a produrre identità di quartiere. La stigmatizzazione che generalmente derivava dall'abitare in periferie degradate produceva una sorta di stigmatizzazione territoriale che arrivava a definire il carattere e l'identità di tutti coloro che vi risiedevano. Si può affermare che le periferie urbane costituivano degli importanti recruitment magnets, ossia luoghi di confine e di vulnerabilità ideale. All'intero di questi contesti sociali, le migrazioni erano sicure protagoniste, riuscendo ad insediarvisi in modo più o meno stabile in ragione del loro carattere di generale marginalità, svolgendo la funzione di serbatoi di manodopera operaia o agricola per le attività produttive locali e avviando occasioni di caporalato etnico anche di grande rilevanza. Esse riuscivano però anche a rompere un'omologazione quasi classista e a vivacizzare socialmente il quartiere o la periferia.
Con la trasformazione del rapporto società urbana-società rurale e la formazione dello spazio transurbano responsabile di un nuovo urbanesimo, le tradizionali dinamiche sopra descritte di ghettizzazione e omologazione cambiano, dando vita a delle evoluzioni in cui il ruolo dei migranti e delle relative comunità risulta fondamentale. In questo il caso dei sikh pontini risulta emblematico. Essi riescono ad inserirsi negli interstizi tanto economici, quanti urbani e sociali, insediandovisi mediante le radici della propria cultura e avviando percorsi di inclusione e, nel caso specifico, "indianizzazione sikh", che risultano di fondamentale importanza anche per rispondere alle richieste del mercato del lavoro descritto sopra.

Quali azioni sociali e politiche andrebbero attivate nell'immediato e quale processo civico andrebbe pensato per il prossimo futuro dei sikh italiani?


Servono diversi percorsi, tra i quali anche la protesta organizzata dei sikh stessi. È necessario che la popolazione autoctona capisca il ruolo strategico e fondamentale, ormai imprescindibile, dei migranti sikh nella società pontina. È parimenti indispensabile investire in una classe dirigente preparata e in grado di incamminarsi in questa direzione e che non si limiti a sterili parole di accoglienza ghettizzante e folcloristica, così come una classe imprenditoriale sorvegliata da poteri pubblici in grado di svolgere completamente e con rettitudine il proprio lavoro. Chiedemmo nel mese di marzo c.a. l'istituzione del consigliere aggiunto migrante esterno all'amministrazione comunale di Sabaudia, quale strategia fondamentale per portare nel luogo principe del potere pubblico le problematiche della comunità. Questa proposta fu bocciata. Lo stesso è accaduto con la successiva proposta relativa alla costituzione della consulta dei migranti. Potevano essere due piccoli passi in avanti per l'inclusione e l'avvio di un dialogo interculturale fecondo, diventando invece un'occasione clamorosamente mancata per inettitudine e impreparazione della classe dirigente locale.

3 dicembre 2012 
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