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«Anche se in vita era un gran pezzo di merda, di un morto non si può dir altro che bene, perché il piacere che ci ha dato levandosi dai coglioni è tale da obbligarci a un tocco di gratitudine, e tacere per non doverne dir male è l’oblazione minima, mentre a non saper proprio star zitti è indispensabile riconoscergli qualche merito, che a frugar bene nella merda si trova sempre...». Si tratta dell’incipit di un coccodrillo che ho scritto due o tre anni fa in morte di ***, e che tuttora riposa nell’apposita cartella in attesa di essere postato su queste pagine, quando sarà il momento, ma che qui mi sembra possa tornar buono anche a spiegare la ragione che ci impone il «nihil nisi bonum» anche su alcuni – pochissimi, in realtà – che sono ancora in vita: è che sono inoffensivi come lo sono i morti, e anche a loro d’altronde non manca qualche merito, che quasi sempre basta a che si taccia di tutto il resto. Così mi pare accada per Luca Medici, cui non si può negare il merito di far ridere, che a tutti sembra poter bastare per sospendere ogni giudizio critico sulle cause e sugli effetti del riso che suscita, come fosse sconveniente, nella duplice accezione del termine (inopportuno fino disdicevole e infruttuoso fino al controproducente). Chi è morto non dà più fastidio, requiescat in pace, parlarne male è così inutile che arriva a sembrare ingiusto, perfino odioso: così con la comicità del Checco, perfettamente innocua, perché studiata al meglio per non ferire alcuno. Si obietterà che, se fa ridere, la comicità ha necessariamente da avere un bersaglio, e quella del Checco ne ha tanti, a destra e a sinistra, in alto e in basso, davanti e dietro, e tutti vengono colpiti, per giunta con la forza di una franca incorrectness. È vero, ma il trucco che la rende inoffensiva sta nel fatto che il colpo si compiace oltremodo dell’esser becero: in questo modo, e nello stesso tempo, a un certo pubblico è offerta l’occasione di un liberatorio sfogo a quello stesso tratto di becerume, mentre al bersaglio è dato il miglior agio di potersi difendere per l’esplicita bassezza del colpo. Il caso più evidente è quello della canzoncina dedicata agli «uominisessuali», scritta nel modo giusto per poter piacere a tutti: agli omofobi, che nel «cozzalone» che definisce l’omosessualità «una brutta malattia» vedranno l’innocente naturalezza disintermediata dall’ossequio al conformismo che ha sdoganato «un’altra sessuità», esigendo l’equiparazione dei gay a «persone sani»; ma anche agli stessi gay, oltre a chiunque ritenga che i gay siano «gente tali e quali come noi, noi normali», perché l’attacco è neutralizzato dalla sua stessa sguaiataggine, ritorcendosi peraltro contro chiunque abbia intenzione di sferrarne uno simile. Se si può far fatica a riconoscere questo espediente nella gag della durata di una canzone o di un’imitazione, esso diventa di piana evidenza nella trama del lungometraggio, che trova immancabilmente il suo lieto fine nel ravvedimento dello zotico che per un’ora e mezza ha squadernato quanto di meglio sapesse offrire in cinismo ed egoismo, in sessismo e razzismo. Ed è qui che la comicità di Luca Medici rivela il suo punto debole: non sapersi accontentare del far cassa in equilibrio sul sottile filo dell’ambiguità, che ancora miracolosamente regge, per l’insana aspirazione a farsi Partito della Nazione.
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