Riprendo
da ciò che ho scritto una ventina di giorni fa: «La cosiddetta personalizzazione della politica è vecchia quanto la
politica, la cosiddetta morte delle ideologie non ha fatto altro che metterne
in evidenza alcuni aspetti che fino ad alcuni decenni fa erano in larga misura
mascherati dall’assumere la figura del leader politico come migliore interprete
di questa o quella ideologia. Venuta meno l’automatica identificazione di un
partito in una posizione ideologica, al leader non è rimasto che interpretare
un narrato personale che includesse al meglio le evocazioni dei fattori in
grado di surrogare un’appartenenza su altre basi. Diremmo che il simpatetico
che fidelizzava i militanti di un partito e gli individui di un corpo
elettorale sia stato degradato dal piano etico che l’ideologia aveva la pretesa
di rappresentare a quello estetico sul quale la persona del leader oggi
pretende di ritagliare l’hortus conclusus di una storia – la sua – come
rappresentazione di un’unità di intenti».
Se
le cose stanno a questo modo, non è più possibile alcuna difesa argomentata di
una posizione politica, ma solo esprimere il proprio gradimento in favore del
suo succedaneo. Ugualmente, il confutarla sarà giocoforza surrogato in un
giudizio di carattere eminentemente estetico: viene meno ogni fondamento al
potersi esprimere con la formula «condivido/disapprovo»,
e a disposizione resta solo il poter dire «mi
piace/non mi piace». È in questo che si rivela il tratto essenzialmente
autoritario di una società che al confronto tra quei diversi, opposti,
irriducibili «complessi di credenze,
opinioni, rappresentazioni, valori che orientano un determinato gruppo sociale»
(Treccani), che chiamavamo «ideologie»,
sostituisce la rappresentazione di patterns estetici alla quale si è chiamati
per dare o no il proprio «like»: dall’appartenenza
a un gruppo sociale, a una classe, ad un partito, fondata sulla condivisione di
una Weltanschauung, si passa all’inerenza che separa una platea in settori di
gradimento, e il cittadino si trasforma in spettatore.
La
crisi della democrazia – la sua deriva populista – ha trasferito alla politica
i caratteri della competizione sportiva. Non a caso le metafore sportive sono
diventate d’uso quotidiano nel commento dell’evenemenzialità politica proprio
da quando al cittadino si è concesso il mero ruolo di tifoso, al quale non è
dato di decidere la formazione del team o lo schema tattico, ma solo
eventualmente di cambiare squadra per cui tifare. E il campionato si è ridotto
a due o tre squadre.