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Creato il 06 gennaio 2015 da Malvino
Pino Daniele odiava Napoli, almeno questo è quanto mi confessò nell’estate del 1976, al termine di un concerto che tenne ad Ischia Ponte, davanti a non più di due dozzine di spettatori, mi pare che il biglietto costasse tremila lire. Poi, sì, l’odio è un sentimento ambivalente, e allora possiamo dire pure che l’amasse, ma tacere dello schifo che provava per i peggiori difetti dei napoletani – basta leggere come si deve Napul’è, ’Na tazzulella ’e cafè e Terra mia – significa fargli un grosso torto, piacesse o non piacesse la musica che componeva. Pino Daniele apparteneva a quella minuscola percentuale di napoletani che di Napoli non sono disposti a sopportare quella rassegnazione, quel fatalismo, quella strafottenza, quella pusillanimità, quella furbizia da servi e quel viscido sentimentalismo che taluni riescono perfino a esibire con orgoglio come un carattere che esige uno statuto di antica nobiltà: se ne hanno la possibilità, fuggono via, e appena poté farlo Pino Daniele lo fece. Il fatto che usasse il dialetto napoletano significa poco o niente, di fatto la sua musica non ha nulla di napoletano, né della tradizione classica, né di quanto su quella è venuto a imbastardirla, per lo più caricaturizzandone i tratti. Era un apolide, si era scelto un linguaggio fuori d’ogni contesto regionale o nazionale, e in quanto al carattere, scontroso com’era, più che napoletano lo si poteva dire abruzzese, friulano, tutto, ma non napoletano. Vedere come Luigi De Magistris si avvoltola nel suo sudario, come a farsene un tabarro, è spettacolo vomitevole. Ancor più, però, lo è il vedere una città intera che fa finta di piangere – lacrime finte, di quelle vere non è più capace da secoli – e del morto non aver capito un cazzo.  

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