Oggi ci confrontiamo spesso (giustamente) con Michael Mann, con Xavier Dolan, con David Lynch, Terrence Malick, con Iñárritu e il suo Birdman, parliamo dell'esperimento Boyhood di Linklater, o del 3D di Gravity di Cuarón, per elencare alcuni nomi e titoli che possono saltare in mente quando pensiamo ad una rivoluzione cinematografica, portata avanti con e per il digitale, ma anche per cause ed obbiettivi altri, tra loro diversi. Ma c'è un regista che più di ogni altro, e spesso in modo sommesso, senza esagerazioni, quindi quasi gentilmente, ha trasformato, e lo sta ancora facendo, le basi e i concetti stessi del linguaggio del cinema; e più di ogni altro può essere chiamato sperimentatore, non di quelli plateali, eccessivi ed esagerati, quasi incoscienti, ma di quelli che conoscono il cinema e la sua natura e ne mostrano ammirazione e riverenza, e soprattutto conoscono il pubblico, e lo rispettano profondamente, mai mettendo in secondo piano, perciò, la sua fondamentale percezione, fruizione, e il suo intrattenimento.
Parliamo di Robert Zemeckis, classe 1952, uno dei totem di quel cinema americano che si affacciava agli anni '80 percorrendo con saggezza quel solco importante scavato dalla cosiddetta New Hollywood, il periodo in cui anche il regista americano iniziò a chiamarsi, come già accadeva in Europa, "autore", e ad avere il controllo quasi totale sulla propria opera. Non a caso il mentore di Zemeckis fu proprio Steven Spielberg, uno dei grandi di questa nuova epoca, che consideravano altrettanto peculiare nel proprio lavoro il fatto di dare un seguito al cinema, alla propria idea di cinema, e quindi al nuovo che avanzava. E Spielberg lo fece proprio con il regista di Chicago, prima facendogli scrivere un suo film, poi iniziando a produrre i suoi primi lavori, ma non imprigionando mai quella libertà creativa e di padronanza della propria opera di cui si diceva. E proprio questo infatti permise a Zemeckis di poter sperimentare sempre nuove ardite soluzioni linguistiche e di immagine per i suoi film. Ossessionato dal tempo che scorre - "fermato" spesso in inquadrature di orologi ( Ritorno al futuro, Castaway), o "rimpicciolito" nell'attimo di secondo o "dilatato" all'inverosimile in eventi che, in entrambi casi, sconvolgono le vite dei personaggi dei suoi film - non si è mai fermato ad un "tipo" di cinema, o ad un "genere", cavalcando di volta in volta ciò che la tecnologia in termini tecnici poteva offrire, per cercare di trovarne un incastro giusto e giustificabile con gli ingranaggi linguistici del cinema: riuscendovi, e risultando di fatto, spesso, egli stesso un pioniere, di terre inesplorate.
Il cinema per il regista originario di Chicago è sempre stato illusione (nel più positivo significato del termine) e sembra suggerire che questa vada creata non tanto (o non solo) con un'immagine della realtà, ma da un lato "immaginando la realtà", e dall'altro con la "realtà dell'immagine". Scusate il gioco di parole, in sintesi: per Zemeckis il cinema è trasfigurazione della realtà, è raccontarla attraverso massicce dosi di immaginazione, di visionarietà, quindi con un uso intelligente e a volte poetico degli effetti speciali, ma allo stesso tempo è fare tutto questo non trascurando la realtà dell'immagine stessa, anzi partendo da lì, non tradendo la sua natura ontologica, la sua potenza trasmissiva, ma soprattutto il suo enorme potenziale, che non si esaurisce nei limiti fisici di uno schermo cinematografico. Tutto questo Zemeckis ha possibilità di sperimentarlo innanzitutto con il digitale, attraverso gli effetti speciali dei primi film, ma arrivando poi a concepire un nuovo metodo di realizzazione filmica, la motion capture, che prende il corpo dell'attore e lo rende cartoon (dopo, tra l'altro, aver fatto coabitare nella stessa inquadratura umano e cartoon, e aver vestito un cartoon con i panni di un essere umano reale in Chi ha incastrato Roger Rabbit); poi amalgamando questa tecnica con il 3D, nell'esempio perfetto che è A Christmas Carol, infine sfruttando il 3D e la tecnologia IMAX, per sfondare barriere, innalzarsi e allargarsi, e concepire nuovi spazi, intercettando orizzonti "altri", come accade nell'ultimo The Walk. In tal senso Robert Zemeckis si sente come il Philippe Petit di cui racconta la storia, un coraggioso pioniere, lo sperimentatore di qualcosa che nessuno aveva mai fatto, e per questo motivo The Walk è un film che lo veste in modo perfetto, più di quanto sembri all'apparenza, perché lo riguarda intimamente, poeticamente, essenzialmente. Così in questo percorso "rivoluzionario" di modernizzazione del linguaggio del cinema, di sconfinamento, di chimica dell'immagine, la sua stessa macchina da presa si "cartoonizza", perde i suoi legami reali, e liberamente si muove, "filma tutto, da angolazioni impossibili, da punti di vista utopici" (Andrea Fontana), inventando inquadrature incredibili (il celebre piano sequenza di Contact, quello nella prima parte di Beowulf, le riprese verticali di A Christmas Carol e di The Walk), cogliendo punti di contatto impensabili tra l'essere umano e il suo passato, o con la Storia, con il suo destino, o ancora con il suo futuro, ma riuscendo sempre a (ri)condurre, amorevolmente e mai forzatamente, lo sguardo dello spettatore, affinché non si perdi: perché ogni virtuosismo stilistico e avanguardistico resta saldamente impiantato nella grande narrazione classica.
Infatti, seppur in quasi ogni film troviamo qualche spinta sensazionale, in termini di realizzazione e quindi nella resa verosimile di una o più sequenze - come negli incidenti aerei di Castaway o Flight, o il Forrest di Forrest Gump che incrocia i momenti e i personaggi più importanti della Storia americana - in questo cammino di sperimentazione ci sono pause importanti: momenti che lo riportano al luogo cinematografico di appartenenza, a camminare nei percorsi di un cinema d'antologia, classico, tracciati da altri e che lui, grazie a Spielberg, conosce alla perfezione. Così si spiega lo stesso Flight, del 2013, che arriva dopo il periodo immersivo nella "motion capture", dal quale, certamente, ne è emerso arricchito lui come autore, ma in un certo senso ne è risultato "ampliato" lo stesso immaginario cinematografico, e The Walk del 2015. O prima, lo stesso Forrest Gump (1994), che arrivava dopo la trilogia di Ritorno al Futuro ('85, '89, '90), ma soprattutto dopo Chi ha incastrato Roger Rabbit(1988) e La Morte ti fa bella (1992); e poi Le Verità Nascoste (2000) o Castaway (2000), opere partorite dopo l'imponente Contact (1997).
"Il cinema agisce sulla realtà, crea mondi nuovi, cambia la storia, in questo modo interpreta il mondo" (Andrea Fontana). Infatti se ora consideriamo la poetica di Zemeckis sotto una luce diversa, che esula dal "come" e ci porta a considerare il "cosa", quel mondo appunto, che le sue opere raccontano in modo non superficiale come potrebbe apparire, scopriamo un autore positivamente "conservatore", in forte contrasto con la sua natura da sperimentatore. Un contrasto che esalta, tuttavia, le potenzialità del suo cinema, e lo riconduce al suo primario ed originario senso, quello di stupire, di emozionare, di educare lo sguardo, ma soprattutto l'animo. L'amore è immanente in ogni opera dell'allievo di Spielberg, ed è il collante di ogni segmento narrativo dei suoi film, anche quando diventa pretesto per inganni, e violenze. Insieme all'amore c'è la famiglia, seppur non quella "happy" americana, ma quella di valori fondanti un sistema di relazioni, di affetti. Sono i temi topici che da un lato permettono al regista di parlarci anche di America e di società contemporanea, attraversandone trasversalmente snodi storici e conflitti esistenziali, e dall'altro di edificarne il centro tematico, ed emotivo, di ogni suo film: Marty McFly si muove tra le varie linee temporali, indietro e avanti nel tempo, per salvare la sua famiglia, e il suo amore per Jennifer; Forrest dedica la sua intera esistenza alla vocazione dell'amore per Jenny, che, guarda caso, è così effimera ed irraggiungibile proprio a causa di un affetto familiare mancato. Il viaggio nello spazio di Elly non è alla ricerca di altre forme di vita, ma della "forma di vita" del padre defunto o di un dio che possa darne un senso, siccome lei stessa si sente responsabile di questa morte; la vita del naufrago Chuk in Castaway è salvata dall'amore per la fidanzata Kelly, per lei decide di lasciare l'isola e di ritornare: è un amore tuttavia che non troverà un corrispettivo reale nella creazione di un nucleo familiare (Kelly sarà moglie e madre di qualcun altro); l'amore domina le vicende anche di All'inseguimento della pietra Verde (1984), dove la protagonista Joan evade dal suo mondo reale per entrare e vivere quello dell'illusione e dell'avventura (ritornando al rapporto realtà-illusione) che sempre aveva raccontato nelle sue storie di scrittrice, e lo fa spinta dall'amore, per la famiglia (una sorella nei guai) e poi per l'uomo che da tanto andava cercando nella sua vita, e nei suoi romanzi. Allo stesso modo Chi ha incastrato Roger Rabbit, La morte ti fa bella, sono impiantati in logiche d'amore; e La fantastica sfida ha nel suo centro narrativo la rivalità tra due fratelli. Amore e famiglia, quindi, impongono al cinema di Zemeckis di fermare il tempo, o di stravolgerlo, e di intendere echi d'eternità. Fermarsi non è sperimentare, non è fare dell'avanguardia, o portare avanti una rivoluzione. Ma la grandezza di questo autore sta tutta qui, nella modernità di un cinema classico, nel coraggio di una sperimentazione per il cinema, e non fine a se stessa. E non è una cosa ovvia o scontata.
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