09 – L’attesa
24 settembre 2015 di Redazione
di Lorenzo De Donno
G. Diso, Uliveto salentino, olio su pannello, cm 150×100, 2014
Quell’opera mi aveva subito colpito, profumava ancora di olio di lino ed essenza di trementina. Perfettamente integrata, fra altri bei quadri, nel salone affrescato di un palazzo antico, sembrava ispirata da certe affiches dei primi del ‘900 e raffigurava, in un’atmosfera di colori caldi e dorati, due donne affiancate, a mezzo busto, in una posa tipica da ritratto fotografico d’epoca. Le gote appena imbellettate, l’acconciatura dei capelli e l’abbigliamento riprodotto, rigoroso ed elegante, mi riportavano ad immagini del cinema muto ed a stagioni remote, ricche di fascino e di un pizzico di malizia e di mistero. Il padrone di casa, cultore del bello, si era premurato di attirare la mia attenzione proprio su quel quadro, che era appena entrato nella sua raccolta. Qualche giorno prima, invitandomi a casa sua per una ricorrenza famigliare, mi aveva già anticipato che mi avrebbe fatto vedere qualcosa di nuovo ed originale. Bello, lo era veramente quel quadro. Pensai che in un mazzo di carte ideale quel “due di donne” sarebbe stata, al contrario dello scarso valore simbolico del numero, una carta sicuramente vincente.
Nella pausa fra una portata ed un’altra del lauto rinfresco che seguì, approfittando del fatto che il mio ospite era impegnato in amabili conversazioni con gli altri convitati, ritornai da solo nel salone per rivedere quel quadro con più calma e per scoprirne i particolari. O meglio, mi accorsi che, in realtà, nulla – su quella tela – era stato particolareggiato. L’autore aveva fornito solo degli stimoli visivi, usando sapienti tocchi di colore, lasciando a chi avesse osservato la sua opera il compito di completare l’immagine nella sua rielaborazione mentale. Ad una “rilettura” più attenta, quel quadro appariva, infatti, decisamente più moderno, nonostante quelli che, alla prima impressione, avevo decifrato come riferimenti “retrò”. I volti erano tratteggiati senza alcuna leziosità, con immediatezza e freschezza di esecuzione (per quanto il colore ad olio lo possa consentire), e con uno stile certamente originale ma che sembrava avere “solide” fonti di ispirazione che abbracciavano un intervallo infinito della storia della pittura. Vi lessi la ricerca della simmetria (e quindi della bellezza classica) ma anche un senso di drammaticità, l’apparente ingenuità e semplificazione dell’espressionismo.
Nulla di rigidamente classificabile, quindi, in uno stile che avessi già visto, ma tanti piccoli indizi mi confermavano che, dietro a quella mano originale, c’era un pittore, oltre che di talento, anche di grande cultura e sensibilità. Notai, infine, che la grossa cornice era stata realizzata con l’assemblaggio di semplici listelli di legno grezzo, nobilitato al nuovo compito. La vernice dorata, utilizzata per la finitura, sembrava irrorata senza pennello. A tratti rimaneva densa e coprente ed in altri velava appena le fibre, lasciandone intravedere le venature e le irregolarità. La cornice era stata costruita dal pittore ed era essa stessa parte dell’opera. L’insieme era, indubbiamente, un bel rebus da decifrare.
“Diso è un pittore giovane, da tenere in considerazione, ne sentiremo parlare …” , mi disse una persona sopraggiunta alle mie spalle, risvegliandomi da quella mia riflessione.
La serata si concluse con la promessa che qualcuno degli invitati mi avrebbe presentato presto l’autore del quadro e che, magari, saremmo andati a trovarlo a casa sua. Quell’occasione, come accade a volte quando non esiste una reale premura, non arrivò mai. Devo confessare, inoltre, che avendo anche compreso male, quella sera, il cognome del pittore, curiosamente somigliante a quello di un altro suo illustre collega salentino, mi capitò di andare persino ad un’esposizione di quest’ultimo, meravigliandomi – prima di ravvedermi dall’equivoco – di non ritrovare lo stile e la produzione che mi aspettavo.
Passarono alcuni anni prima che Diso (con la “D”) decidesse di allestire una nuova mostra personale a Maglie. Fui invitato all’evento dalla responsabile di un’associazione culturale che aveva collaborato all’organizzazione. Mi anticipò che l’artista avrebbe portato molte opere, tutte molto belle, raccomandandomi di non mancare all’inaugurazione. L’entusiasmo con cui mi venne comunicata la notizia mi fece capire che qualcosa si era già mosso intorno a questo artista e ripensai alle parole di quella sera. Giuseppe, infatti, era già affermato e si era conquistato la stima di importanti personalità della cultura locale, alcune delle quali si erano espresse con critiche lusinghiere, pubblicate in occasione di precedenti mostre.
Il giorno dell’inaugurazione, nonostante avessi stabilito che ci sarei andato sul tardi, accompagnato da mia moglie, non resistendo alla curiosità, decisi di anticipare la mia visita. Avrei dato solo un’occhiata, per poi ritornarci successivamente con più calma, come stabilito.
La mostra non era stata organizzata nella Galleria comunale, come avveniva in genere, ma in una piccola casa sulla centralissima Via Roma di Maglie. Non disponeva di una bella sala, e quindi veniva meno l’impatto e lo “stordimento” di trovarsi subito immersi nelle opere, ma le stanzette che si susseguivano, nella tipica impostazione della casa di corte, consentivano, per contro, di scoprire gradualmente i quadri, seguendo un percorso ideale studiato dall’artista.
Non so dirvi se fu una reale rivelazione, quella che provai varcandone la porta, o se fu una sorta di auto condizionamento, come può accadere quando l’aspettativa è tanta e, quasi inconsciamente, ci si predispone “in positivo” per scongiurare la probabilità di una delusione.
G. Diso, Sul mare, olio su tela, cm 70×100, 2014
I quadri erano numerosi e tutti figurativi. L’impatto fu coinvolgente ed ebbi subito l’impressione rassicurante di essere perfettamente in sintonia con l’autore e la filosofia che aveva ispirato quelle opere. Altrettanto velocemente, ebbi la conferma, con tutti i limiti delle mie personali competenze, che il livello qualitativo era veramente molto alto e che quella pittura non era per tutti, fin troppo colta e ricercata per piacere ad una platea di provincia. Poi, i sensi presero il sopravvento sui ragionamenti e mi ritrovai presto immerso nei panorami della mia terra. Un Salento antico ed autentico, fra i casolari diroccati, la terra rossa, gli ulivi ed i fichi d’india. Fra lingue di mare e strisce di spiaggia solo accennate negli sfondi e confuse dalla rarefazione, a ricordarne l’essenza mediterranea. Nulla di convenzionale però, nessuna “cartolina nostalgia” confezionata come un souvenir per i turisti facoltosi o da portarsi dietro, in casa, per riempire uno spazio di parete vuoto, fra un “divaniedivani” ed una “scavolini”. Colori sfumati, invece, polverosi, quasi sussurrati, resi in una dimensione metafisica dove il tempo sembrava fermarsi o si era fermato su quell’unico, e ultimo, raggio di sole che illuminava un intonaco scrostato. La casa era spesso al centro, custode sicura ed inespugnabile della sacralità della famiglia contadina, degli affetti ma anche dei drammi e dei dolori, al termine di una giornata di duro lavoro nei campi… (altro che mulino bianco!).
Avrei voluto soffermarmi su ogni soggetto ma il tempo di quest’anteprima era poco e gli occhi già si posavano sull’opera successiva, come quando si offre ad un bambino un vassoio di dolci invitanti e lui li morde tutti, avidamente, mischiandone i sapori.
G. Diso, Fiori, olio su tela, 2015
Nella stanza successiva le nature morte erano minimaliste, elegantissime, misurate, quasi morandiane. Nulla di lezioso, niente di esagerato. Erano soggetti floreali, contenuti in semplici vasi di ceramica dai riflessi opalescenti, oppure di cristallo, dove la trasparenza era resa sulla tela, straordinariamente, da tre soli tocchi di pennello. Fiori di campo e quelli dei nostri giardini: iris, dalie, zinnie, rose… Ogni fiore dipinto da poche pennellate, cambiandone il verso e la tonalità del colore. Eppure sembravano appena colti, proprio come si faceva un tempo, assemblando, senza fretta, il mazzo nella mano, durante le passeggiate pomeridiane in campagna o costeggiando le aiuole nei propri cortili e giardini.
G. Diso, Solitudine, olio su cartone telato, 2015
Chiudevano il percorso della mostra dei soggetti femminili emblematici e poi ancora panorami, questa volta collinari, con cipressi e borghi che lasciavano intuire un’esperienza artistica che aveva riferimenti anche fuori dalla nostra regione.
– C’è una vita in questo quadro. Che bel tramonto! – Mi disse la signora che mi aveva invitato, indicandomi una grande opera che raffigurava un borgo contadino toscano dai colori sfumati e con i tetti di tegole appena accennate. In un’atmosfera quasi ovattata ed appena rosata si distinguevano le strade, le case ed i magazzini, orti ed alberi da frutta, e poi i cipressi allineati sulla collinetta di campi arati che faceva da sfondo. Sembrava un’alba, ma forse era un tramonto, come aveva affermato, senza tema di smentita, la signora. Poi i miei occhi furono catturati da quella che mi apparve come una visione. Una grande tela, dall’insolita forma quadrata, bucava il muro bianco della stanza come se fosse una finestra aperta sul mare. Rappresentava un’adolescente, vestita di bianco e con i capelli chiari e raccolti sulla nuca, appoggiata con la schiena ad una colonna. Il personaggio non era al centro del quadro ma ne occupava solo il lato destro, lasciando che lo sguardo corresse, insieme al suo, su un vasto mare argenteo, piatto e senza onde, mosso in superficie solo dalla tessitura delle pennellate. Sull’insieme, un cielo velato, di un colore indefinito, un grigio quasi perlato ed a tratti iridescente. Quella figura delicata attendeva qualcuno, o qualcosa. Una scena di calma apparente ma di grande tensione emotiva alla quale era impossibile rimanere indifferenti…
Giuseppe mi venne incontro e ci presentammo. Ne apprezzai l’estrema educazione ed i modi gentili e schivi e, perché no, anche l’aspetto “pulito” da giovane professore ed il suo linguaggio colto e misurato. Gli indicai la fanciulla che avevo appena notato. Mi disse che il titolo era proprio, a conferma della mia prima impressione, “L’attesa” ed era al n. 09 del catalogo della mostra. Gli feci notare, sorridendo, che la targhetta adesiva sulla cornice indicava un altro titolo: “Donna in poltrona”. Uno scambio di etichetta, mi disse sorridendo …
Nonostante fosse la sera dell’inaugurazione e ci fosse già tanta gente ed autorità mi dedicò alcuni minuti per parlarmi di quell’opera che mi aveva tanto impressionato. Mi disse che si trattava di uno dei suoi personaggi femminili che erano stati definiti dalla critica come “icone dell’attesa”, donne immerse nel loro silenzio metafisico e, citando una recensione ricevuta dal Prof. Donato Valli, “assorte in sé stesse e insieme proiettate verso uno sguardo penetrante che finiva per colpire l’intimità dell’osservatore, sorpreso della loro semplicità, coinvolto nel loro domestico desiderio di cieli sconosciuti”. Era esattamente quello che avevo provato.
Ci stringemmo le mani, nel salutarci ci dicemmo che ci sarebbe piaciuto approfondire la conoscenza, che ci saremmo rincontrati presto. Giuseppe mi promise che mi avrebbe fatto vedere anche alcuni suoi esperimenti di pittura astratta…
Sono passati tanti anni. Ogni mattina passo a salutarla e lei è ancora lì, con il suo vestito immacolato, il suo sguardo dolce ed un po’ triste. Scruta il mare argentato, nella sua interminabile “attesa”, ed io con lei, come se fossi il custode di un enigma di cui non conosco la soluzione e che non verrà mai svelato. Poi mi volto e guardo i tetti, appena accennati, di un paesaggio toscano rischiarato dalle prime luci del giorno. Il sole spunterà presto dietro le montagne dell’Albania. Sì, è proprio un’alba, non è un tramonto!