Per un giorno scrivo. Vinco la violenza della pagina bianca infilzando parole come coltelli.
Scrivo contro il vuoto grande e contro il vuoto nuovo (piccolo?) che ho permesso che si creasse, dimenticandomi che ci si deve sempre difendere, che non bisogna mai lasciare cadere la consapevolezza di quello che si rischia, mai pensare di non avere più niente da perdere, non è mai vero. Come non è mai reale il dirsi “stavolta sarò più forte, stavolta non mi lascerò toccare, stavolta sarò leggera e lascerò andare.” Balle.
La sua sagoma nuda che taglia la luce, davanti ai miei occhi, e io che disegno nell’aria con le dita, seguendo i suoi contorni. Continuo a rivedere questa scena. È accaduto. Una sera, non ricordo quale.
Scrivo e scrivo, dappertutto, il mio libro che vuole essere scritto, appunti sul 99 ° taccuino e poi questo, il centesimo. Comprato nuovo la settimana scorsa, un bel quaderno spesso, di carta sottile, già quasi finito. Ne comprerò uno uguale, se lo finisco, lo unirò a questo con la spillatrice, perché resti ancora il centesimo. Uno sciocco rito privato, come camminare sulle piastrelle restando al centro, come interpretare la giornata in base alla prima persona che incontri.
Verso sera divento nervosa. Sempre più nervosa, mentre le ore passano e lui.
E lui non è venuto.
Il secondo giorno scrivo di cattiveria, vado avanti di forza bruta. Non c’è incanto, tra le parole, il bianco è opaco, e niente di quello che ci metto riesce a farlo diventare luminoso, ma continuo, a testa bassa, come se non me ne accorgessi, fino alle tre del pomeriggio. Fino a che l’impotenza mi fa digrignare i denti.
Non sono andata avanti sul serio.
Scrivo, in mezzo al file della traduzione di Mrs Beardsley, parole senza senso, il tuo corpo come burro che si scioglie nel calore del mio ti voglio, e nemmeno ti manco, io che vorrei così ferocemente mancarti.
Sbuffo e cancello, passo a questo taccuino, riscrivo e ascolto i rumori per le scale, cancello e trattengo il fiato, le tue palpebre di seta azzurra, lisce, senza una piega, scrivo sentendo i suoi passi che scendono, mi tremano le mani per i suoi passi che risalgono, mi arrabbio e cancello, perchè è passato oltre la mia porta senza nemmeno rallentare.
Il terzo giorno non ci provo nemmeno, a cercare le parole.
Il silenzio è più violento di tutto, lo devo ammettere, niente è più violento dell’assenza.
Non riesco a scrivere perché penso a Elia, oppure continuo a pensare a lui perché non riesco a scrivere? Causa o effetto, non cambia niente.
Quel che è certo è che ho un contratto a scadenza, per il mio romanzo, e che non sto rispettando i tempi. E non ci sarà una proroga. Devo scrivere ogni giorno, non posso permettermi di smettere, devo scrivere sempre.
Continuo a provarci, mentre la mente, femmina e bastarda, continua a tornare a Elia, al nostro incontro, a mostrarmi una me stessa più affascinante, una me stessa rivale di quella che ora se ne sta raggomitolata come un ghiro sotto le coperte. Potessi riportarla indietro, capire che cosa ho perduto lungo la strada, conoscessi l’inganno che l’altra me ha saputo tessere, il sortilegio che ha fatto sì che un bellissimo ragazzo la desiderasse così tanto da correre a casa dopo la scuola per prenderla ancora.
Potessi almeno scriverne, scrivere dell’eterno abbandono, della tragedia dell’amore, “l’infinito dato in pasto ai barboncini”, dice Cèline. Con che diritto amore, poi. Per fortuna non esiste il reato di abuso delle parole sacre, nemmeno tra i comandamenti Dio ha dettato “non usare la parola amore a sproposito”-
Potessi farmi un pianto, almeno. Invece niente. Sono dura e grigia come terra arsa dal sole, screpolata, sterile.
Le ore passano così, tra un paragrafo scritto di malavoglia e cancellato con rabbia, tra il caldo e il freddo, tra il mettere la coperta e il toglierla.
L’alba del quarto giorno mi trova sveglia, sfinge di gesso sotto le coperte, esausta e arrabbiata.
Apro l’armadio dove tengo i miei novantanove quaderni, ne sfilo uno dal mucchio (non sono in ordine, ovviamente, non c’è niente in ordine qui) lo apro in mezzo, a caso, e leggo.
…
(estratto da un romanzo introvabile)