Milano, febbraio 1981.
Era stato a Varese, rientrava dopo due settimane di assenza.
Entrando nel bilocale in zona Moscova lasciatogli dalla nonna, che era divenuto ormai il suo studio e la sua casa, Stefano non si stupì di vedere suo fratello Mario addormentato sul divano.
«Monica ti ha lasciato. Di nuovo!», disse dandogli una pedata sulle suole di cuoio d’ordinanza.
Mario ritirò le gambe dalla stuoia stesa in terra e aprì gli occhi incollati, aveva la barba lunga e puzzava di vino ed erba: «Che ore sono?», grugnì riprendendo immediatamente a russare.
«Le 3 e 20.», aveva risposto Stefano a se stesso, gettando in terra la borsa e appendendo il cappotto al cavalletto. Prese una sigaretta e i cerini, poi aprì la finestra in fondo alla stanza per una boccata d’aria. Si affacciò su via alberata, la nebbiolina creava strani effetti alla luce dei lampioni.
Istintivamente prese una matita 2H, che si trovava abbandonata sul davanzale, e prese a disegnare, sul blocco di un brogliaccio, le tracce di quel niente incorniciato dal legno marcescente degli infissi.
I tratti s’incrociavano febbrili e chiari e, preso dall’urgenza, Stefano sedette sullo sgabello appoggiandosi al banco di lavoro. Strappò il primo foglio e continuò a scarabocchiare, tirando boccate distratte alla Pall Mall che nel frattempo aveva acceso e che teneva nella mano sinistra.
Doveva riuscire a riprendere il viso in trasparenza e indefinito che sembrava apparire nella nebbia, ma chi ritrarre? Chi era? Due occhi chiari e colmi d’attesa presero forma, Stefano disegnava senza staccare la mina dal foglio, ripetendo ossessivamente gli stessi gesti. Era ancora lei.
A volte la ritraeva ancora bambina, in altri casi era già una donna, vestita, nuda, pensosa o serena, in abiti d’epoca o in pose oscene… la vedeva ovunque, anche se non esisteva.
Quella figura si ripeteva nei suoi disegni distratti, nei biglietti, sui margini dei quotidiani, nelle pagine bianche dei libri che leggeva, perché ogni artista ha una Musa che appare dal nulla, un soggetto che diventa un ideale creato dal subconscio e da chissà quale retaggio della memoria. E lei era la sua.
Aggiustò i profili con tratti più netti, cambiò mina, diede profondità alle pupille dilatate, poi tracciò una sola parola. Fog. Nebbia. Era l’esatto colore che vedeva attorno a quel fantasma, non era mai riuscito a ritrarre quella figura femminile con del colore, era sempre sospesa nella bruma, un sogno che non riusciva a definire meglio. Aveva una cartella piena di disegni estemporanei esattamente come quello. Una raccolta che non avrebbe mai mostrato a Gabriella o a un mecenate. Era una cosa sua, personale e segreta.
La brace gli scottò le dita e Stefano si riscosse, tornando in sé e al presente.
Come sempre gettò il mozzicone nel vasetto della marmellata che usava per sciacquare i pennelli, ma mancava da troppi giorni e non c’era più acqua al suo interno, solo il deposito grigio e polveroso di pigmento. Portò il vasetto nel lavandino e lo riempì d’acqua, poi raggiunse il vecchio materasso sulla pedana, quello che usava per mettere in posa le modelle, e si schiantò sulle lenzuola che usava come drappeggio. Si addormentò immediatamente.
illustrazione e foto by AmeliaKalbi
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