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Antonio Devicienti: sulla scrittura di Adriana Gloria Marigo

Da Narcyso

Antonio Devicienti: sulla scrittura di Adriana Gloria MarigoLa scrittura poetica di Adriana Gloria Marigo concepisce se stessa come ricerca della bellezza e tentativo di incastonare la parola-diamante pur dentro l'incertezza e la labilità estrema dell'esistente; essa non dimentica né ignora i conflitti sociali, l'attualità storica e politica, le ondate di volgarità e tracotante ignoranza che tutto e tutti vogliono travolgere, ma proprio per questo, fedele alla lezione dei Greci, riafferma se stessa come resistenza a tale volgarità e a tale ignoranza innalzata a valore. Sarebbe un errore, infatti, fornire un'interpretazione di tipo estetizzante o nostalgico alla scelta che Gloria ha compiuto in sede di poetica, dal momento che la scrittura si riconosce in questo caso pienamente immersa nel proprio tempo e, per usare il titolo del più recente e bellissimo libro di Nanni Cagnone, si pone in posizione discorde se il tempo cui facciamo riferimento pretende (e spesso da molti autori riesce ad ottenere) una poesia più o meno vagamente prosastica e mimetica del reale o l'uso di un linguaggio sciatto e colloquiale.
Per dimostrare le mie tesi mi proverò ad attraversare i due libri finora pubblicati di Adriana Gloria Marigo.

1. Un biancore lontano (LietoColle, Faloppio, 2009).

Ecco: di questo libro trattengo innanzitutto una fragranza, un distico secondo me indimenticabile perché conferma, inatteso qual è, quanto la poesia abbia anche bisogno di sorprendere e di catturare il lettore, che non verrà irretito in abitudinari schemi metrici o in consueti repertori immaginativi:
Lontana, Arabesque, Jane Birkin. Musica dell'andare / oltre il finito (da Gondole, pag. 38): la voce nel canto e la musica di Jane Birkin sono chiara emersione della poesia che, dalla lontananza dove sembra avere origine, si avvicina e cerca di varcare il finito con quel suo moto continuo e quella sua vocazione migrante:

Dico subito che caratteristica tipografica di tutti i testi di entrambi i libri è il loro allineamento al centro, come se l'autrice volesse ribadire anche spazialmente e visivamente la forza espressiva che ogni componimento ha e infatti il bianco è motivo conduttore della raccolta, a partire dal titolo e dalla lirica eponima, bianco da apparentarsi forse al silenzio come necessari poli dialettici del nero della scrittura e del risuonare della parola:

UN BIANCORE LONTANO

(pag. 11).

Come si può constatare gli effetti luministici segnano, sinesteticamente, i momenti fondanti del dire poetico: "tutto l'azzurro" (l'immane spazio della poesia) sembra reggersi su di un "biancore lontano" (il dire del singolo testo) e, nell'ora meridiana (lo "zenit del giorno"), si attua l'incontro di un "io" e di un "tu" (quella di Gloria è sempre una scrittura in tensione dialogica) e il leggero spirare dell'aria schiarisce l'ombra, vale a dire quest'incontro di affinità elettive e questo essere in atto della poesia attenuano (ma non eliminano) l'ombra; infatti:

*

(pag. 12).

Se ritorna la ricerca montaliana del varco e la tensione conoscitiva sottende il dire in forma di canto, in questo libro c'è l'approdo alla certezza che l'ombra sia ineludibile, quando non necessaria, proprio perché Marigo sa, con i suoi amati Greci, che l'esistere (e si esiste solo se si esercitano l'intelletto e la ricerca della bellezza) è un processo dialettico: suono-silenzio, luce-buio, moto-stasi. In tal modo si comprende la necessità riconosciuta dell'intermittenza e talvolta, aggiunge Gloria, dell'improvviso bagliore, di un'accensione dell'intuito che consente l'accesso alla comprensione.
Non è allora attardato neoclassicismo o stanca maniera l'accenno agli dèi del mondo antico:

L'ALCHIMIA DI AFRODITE

(pag. 17).

Lo dimostrano gli studi di Giorgio Colli, di Károly Kerényi, di Ginette Paris: la verità del mito antico spiega noi a noi stessi, quel μύθος, cioè quel racconto antichissimo contiene e spiega quel che, attimo dopo attimo, diveniamo e dunque siamo.

*
Semplicità è un'aria speciale - pensiero
in cerca di rarefazione - grazia che ripudia
la parola eccedente, che desidera
l'osso di seppia del dire

il taglio a brillante del senso

(pag. 19).

Abbiamo così appena letto una dichiarazione di poetica e un passaggio esplicativo di come siano cercati e costruiti questi testi, entro un'affinata coscienza di che cosa si vuole dire e di come lo si vuole dire e in un'orgogliosa rivendicazione al fare poetico della sua capacità di instaurare senso e bellezza, al quale presiede un demone di classica ascendenza: il demone che mi abita (...) Solo per lui provvedo - come un'etoile / d'antan - all'esercizio quotidiano, alla sbarra (da L'ospite atteso, pag. 20). Anche questa è una dichiarazione di poetica: l'ispirazione da sola non basta, le occorre un diuturno, duro esercizio (l'umiltà della sbarra cui neanche le più acclamate étoiles si sottraggono, consapevoli della sua necessità).
E Marigo continua la sua riflessione sulla scrittura in termini davvero interessanti, legati al paesaggio italiano improntato da una sapienza antica di secoli, come se la poetessa lasciasse fluire nella propria scrittura la bellezza che si respira, talvolta senza neanche che ce ne rendiamo conto tanto la cosa appare naturale, in quelle parti della Penisola che ancora miracolosamente resistono al degrado e all'ignoranza:

Tempo, vino venturo

(pag. 21).

L'antico modo di coltivare la vite (già etrusco) ispira all'autrice una similitudine bellissima ed un testo perfettamente bilanciato (due strofe di sette versi e un verso isolato in chiusa) nel quale la prima parte descrive la vite che cresce tra i due salici e la seconda parte ci fa trapassare, attraverso la forma di voluta del tralcio, nel raffinato Cinquecento italiano, ma dal primo all'ultimo verso della composizione è il tempo la linfa che nutre la poesia (il "vino venturo"), un tempo di lunga e nobile pazienza, un tempo d'attesa e di cicli stagionali e pluriennali, anch'esso discorde rispetto all'ossessionata velocizzazione delle nostre attività di cui siamo vittime. Ma la coltivazione della vigna, la vendemmia e la vinificazione significano cura, attesa, lavoro e ancora attesa. Si comprende bene, allora, l'esigenza del silenzio e della concentrazione, il bisogno della notte:

LA PAROLA DELLA NOTTE

(pag. 23)

Mi piace qui ricordare che Giovanna Bemporad prediligeva la notte e di notte scriveva e viveva e la poetessa è stato uno dei nostri autori che molto più di altri ha fatto della distillazione della parola e del verso la ragion d'essere della propria opera e anche in lei riconosciamo la dedizione totale all'arte, il valore dell'attesa e della pazienza - e della cura.
I luoghi geografici prediletti di Marigo sono Venezia e il Veneto, Luino e la Grecia, tutti a lei legati per motivi biografici e culturali e davvero bello risulta, sul finire del libro, il legame tra l'Egeo orientale e Venezia, o meglio, con allitterazione che ne sottolinea il valore, le terre vi-ola di Ve-nezia, che ci riportano alle gondole del testo con cui ho aperto questa mia lettura, mezzi elegantissimi per traversare una città e il tempo, là dove il mare e il vento incarnano la distanza e l'altrove:

*

(pag. 40).

2. L'essenziale curvatura del cielo (La Vita felice, Milano, 2012).

Uno dei centri d'irradiazione di questo libro si può riconoscere già nelle prime pagine della silloge, là dove si pone a chiare lettere la questione dell'interdipendenza di scrittura e lettura e un'etica della scrittura che non prescinde dalla lettura (si chiosi: dallo studium, dal costante impegno di studio):

RIMBALZI SPECCHIATI Per diletto tormento.

(pag. 14)

Si noti il forte e significativo ossimoro in chiusa e la perfezione della resa linguistica, stilistica e ritmica della "specchiatura" continua tra scrittura e lettura e, viceversa, tra lettura e scrittura. Ma questa scelta di poetica serve a profilare, con rigore di stile, una storia d'amore che esprimendosi proprio tramite testi in versi controllatissimi e lavorati come diamanti non scade nel soggettivismo né nel patetico e che si connette al tema delle stagioni del precedente libro:

TUTTO SI CONSUMA NELL'AUTUNNO

(pag. 9).

La perdita o l'allontanamento (dovuti ad un tradimento subìto? O a un suicidio, come lascerebbe intendere un testo successivo?), la consequenziale assenza s'accampano in molti testi, ma senza patetismi, fermamente contemplati e detti:

3-4 GENNAIO 2011

(pag. 11),

e le date sembrano identificare tappe di una dolorosa storia personale che la scrittura decanta e porta a chiarezza grazie ad un intelletto che "arde" e a un "non fragile cuore" (faccio notare qui che l'esergo del libro precedente recita: Ai miei antenati glauchi / dal passo retico che percorsero / le fragranze della pianura e / mi formarono al sogno...):

3 FEBBRAIO 2012

(pag. 18).

Ma, non dimentichiamolo mai durante questa lettura, l'itinerario che va dispiegandosi insegue la bellezza e la sua capacità di stupire e la "storia d'amore" sottesa al libro potrebbe essere letta anche come metafora del difficile, esaltante, controverso rapporto amoroso tra poeta e poesia:

ALLA PRIMA LUNA CHE MI COLSE DI STUPORE

(pag. 22).

Se esattamente un secolo addietro i Futuristi dichiaravano che fosse necessario uccidere il chiaro di luna (ma si riferivano al provincialismo e all'arretratezza di gran parte dell'arte italiana di quegli anni), Adriana Gloria Marigo ha il coraggio di tornare a poetare intorno alla luna, fedele allieva di Saffo, probabilmente, ma sodale di Giovanna Bemporad, se quest'ultima, dedicando la sua lirica a Leopardi, scriveva:

(Giovanna Bemporad, Esercizi vecchi e nuovi, Luca Sossella Editore, Roma, 2011, pag. 24);

il magistero leopardiano non mi sembra affatto estraneo alla poesia di Marigo e qui mi piace citare un'altra lirica d'ispirazione lunare-leopardiana, di Jacqueline Risset, della quale noi Italiani non dovremmo dimenticare la straordinaria passione di italianista, né il valore di sapiente, squisita poetessa:

Presenza della luna

- riso vicino sulla collina
nessuno ride così dolcemente come te
né così da vicino, Giacomo Leopardi

(Jacqueline Risset, Il tempo dell'istante - poesie scelte 1985/2010, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2011, pag. 31).

Voglio dire che il tema e la presenza della luna, rinnovati e resi attuali nella poesia contemporanea, sono metafore della meditazione e della liberazione sia del pensiero che della parola poetica e che, come molto bene dice Risset, la luna fa irrompere l'altrove, cosa perfettamente in linea con la poetica marighiana (non a caso il titolo stesso, alludendo alla curvatura del cielo, sembra volerci rimandare a lontananze ben presenti nel nostro vivere).

SE AMORE SI FA QUARTO

(pag. 35).

Si potrebbe pensare alle foto di Mario Giacomelli, sia a quelle dedicate alle notti lunari, che a quelle d'ispirazione leopardiana, dove i chiaroscuri del bianch'e nero sono affioramenti degli aspetti nascosti dell'esistere, i percorsi notturni un'indagine dentro l'enigma, i luoghi fotografati concrezioni del silenzio. Ed ecco, nel libro di Gloria, il

SILENZIO BIANCO

(pag. 36).

Proprio a questo silenzio bianco facevo riferimento poc'anzi ipotizzando la storia di una separazione dovuta a suicidio (rileggasi il terzo verso e quelli seguenti, ma tale "suicidio" può essere sia reale che metaforico), tuttavia non è affatto necessario stabilire con precisione gli eventuali elementi biografici che potrebbero costituire le ragioni di partenza di queste liriche, fondamentale è il risultato che il lettore si ritrova tra le mani e che è un canto venato di dolore, ma mai arreso né mai lontano dalla gioia di esistere e di scrivere (direi che per Gloria quest'ultimo sia binomio inscindibile), pur nella consapevolezza piena dell'impermanenza e della labilità degli esseri viventi:

IMPERMANENZA Mi stanca il volo d'ape e
la perdita del bottinoSBRECCIATURE OGGETTIVE
è deprecabile.CHE TUTTA LA BELLEZZA ACCADA
Tra fiore e ape sarebbeNELLE IONIE Giungo per mare. Vedo la terra nella mano del sole. Ogni profumo è incandescenza d'aria. Del bianco non seppi
poiché m' insidiò il blu
Qui cadono tutti i vaticini. La tua voce di oracolo soaveImpera solo l'essenziale
Antonio Devicienti curvatura del cielo
s'infrange contro l'alloro. l'estate, se non fosse
la corolla votata al suo destino

(pag. 42).

Anche nel caso di questa lirica (da poco oggetto di una preziosa edizione d'arte a cura di Alberto Casiraghy della Pulcinoelefante) è rintracciabile il tema classico della fugacità della bellezza, assieme a quello del passare del tempo due pagine dopo:

(pag. 44).

Un "regno di parole" è bella definizione della propria scrittura, ma si osservi come, ancora una volta, sia inestricabile la connessione tra parola poetica ed esistenza e che sempre, anche oltre l'improvviso sbiancare dei capelli, sia la bellezza a meritare, tra l'altro, una sorta di formula ieratica, in quello che sembrerebbe un atto di consacrazione:

(pag. 48).

C'è infatti una ragione del canto e una coerenza che s'inverano nel corso di tutto il libro e che partono dalla frase che Adriana Gloria Marigo ha posto in limine alla silloge: Al demone che ci arde d'amore - il δαίμων di socratica memoria, anche dantesco intelletto d'amore direi, può essere un "roseto in fiamme" e un "bruciare" del pensiero, un'incandescenza che riporta ad uno dei luoghi-simbolo della bellezza nel mondo antico:

(pag. 54).

Tra le realizzazioni più alte della poesia di Kavafis c'è proprio Ionica (che qualcuno traduce, molto appropriatamente, Canto di Ionia) nella quale l'Alessandrino sostiene che gli dèi non hanno mai abbandonato quella terra di bellezza, anche se ne sono stati distrutti templi e simulacri: la Ionia è infatti paesaggio interiore e luogo della poesia par excellence e Gloria sembra riprendere in mano quel filo kavafiano per continuare il proprio discorso poetico che, inoltre, si riallaccia coerente al Dodecanneso del libro precedente e al bianco(re) del medesimo.
E siamo ora in conclusione, giungiamo a quella curvatura del cielo del titolo e che, come per moto pendolare, riecheggia i versi di Pierluigi Cappello in esergo al volume ( Un giorno settembre era limpido e ventoso / il silenzio ammutoliva, la terra tornava al cielo), confermando la vocazione di questa poesia che è in continuo movimento e dirige uno sguardo sempre verso il lontano e verso l'alto, come se la Ferne (la lontananza) della tradizione romantica tedesca possa essere ancora attuale, esprimendosi in un inestinguibile disìo di ciò che è essenziale (cioè fondante del nostro essere) e bello, ma nel senso, come già sottolineato, non vuotamente estetizzante, bensì, al contrario, in direzione di una ricerca di bellezza che è ricerca esistenziale ed etica, rigore di scrittura (il quotidiano esercizio alla sbarra) che non significa nient'altro che autodisciplina e dirittura morale, concentrazione, mi verrebbe da dire monacale dedizione (si pensi al modus vivendi e all'arte di Giorgio Morandi), tutto questo esercitato e curato e difeso attraverso le simplegadi della volgarità, della superficialità, di tutto ciò che è vanesio, rumoroso, approssimativo, egoistico.

***

(pag. 59).


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