Per essere onesti de Heer aveva già lambito il tema degli aborigeni con The Tracker – La guida (2002), ma lì la presenza autoctona era ridotta alla singola figura di un uomo di colore, mentre in 10 canoe (2006) il palcoscenico è tutto per una tribù indigena che si inoltra nelle paludi per cacciare delle oche mentre uno dei saggi del gruppo racconta un’antica storia al fratello più giovane.
Diciamo che fa piacere sapere che esistano film come questi in grado di svelare porzioni di storia e di geografia praticamente sconosciute al mondo occidentale (ma non è la prima volta, nel 1984 quel globetrotter di Werner Herzog aveva girato Dove sognano le formiche verdi), in più se lo fa con una netta aderenza alla realtà tramite il linguaggio – recitazione in lingua locale – e gli attori – nativi del posto non proprio avvezzi ad un set cinematografico –, ecco che lo sforzo va per forza ammirato.
Venire a conoscenza dell’esistenza di questa realtà tramite un film può, come detto, far piacere, ma non è detto che la visione di esso sia piacevole.
Il fascino verso una cultura così lontana e così in antitesi alla nostra materialità c’è tutto, eppure il tono fiabesco che si autorifiuta di essere tale riduce una storia a storiella edificante, cosa che era evidentemente nelle intenzioni del regista vista l’impostazione didattica che è stata data (la narrazione come evento educativo), ma che non ha efficacia forse perché, aldilà del contesto, ciò che ci viene mostrato è vecchio come il cucco: amore, gelosia, vendetta.
Notevoli le riprese in bianco e nero.