10 regole per fare innamorare

Creato il 16 marzo 2012 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Anno: 2011

Distribuzione: Key Films/Lucky Red

Durata: 100′

Genere: Commedia

Nazionalità: Italia

Regia: Cristiano Bortone

Dopo i manuali di Veronesi, ecco servito sul grande schermo il decalogo di Bortone. Il tema è lo stesso: l’amore e i suoi complicati meccanismi. Peccato che ci troviamo a fare i conti con un sentimento che non ha in dotazione un libretto d’istruzioni. Esso è imprevedibile, quando è vero non ha vie di mezzo, come la tosse non si può nascondere, arriva quando meno te lo aspetti e ti catapulta in paradiso, ma allo stesso tempo può scaraventarti diritto giù all’inferno. Eppure c’è chi si ostina a provare a svelarne i segreti, a spiegarne le logiche, quando di logiche il suo dna non è ha, e ancora peggio a imbastire una lista di regole per farlo sbocciare, quando il colpo di fulmine o una freccia scagliata dall’arco di Cupido non ci hanno messo lo zampino. Quasi che secoli di letteratura e poesia non siano bastati a far capire ai posteri un concetto molto semplice: l’amore non ha regole, di conseguenza non può esistere un manuale che le racchiuda.

Detto ciò, il problema di fondo dell’ultima “fatica” dietro la macchina da presa di Cristiano Bortone, 10 regole per fare innamorare, è rintracciabile proprio alla base, ossia nell’ennesimo tentativo di portare al cinema una storia, e un gruppo di personaggi che la rappresentano, sotto forma di una sorta di manuale da consultare come un bignami per carpire velocemente le dinamiche, i segreti e le tecniche, di una materia astratta come l’amore.  Si, perché, a conti fatti, quello che viene propinato alla platea di turno non è nient’altro che un bignami del rimorchio facile, mascherato neanche a dirlo da teen-comedy sentimentale, infarcito come al solito da pruriti sessuali, ormoni impazziti, tradimenti e scappatelle, festini, foglie di maria a volontà e conflitti generazionali padre-figlio, con adulti che si comportano come adolescenti in calore, viziati e irresponsabili, contrapposti a giovani che non vedono l’ora di crescere e, che per inseguire i sogni a lunga scadenza, si dimenticano del presente e delle bollette da pagare. Il tutto accompagnato dalla hit musicale del momento, che stavolta si traduce nelle bellissime note e parole di Francesca Michielin con la sua Distratto.

Per una critica corretta e sensata dell’intera operazione bisognerebbe innanzitutto entrare nel mood di una commedia che punta in primis a un target adolescenziale e tardo adolescenziale, cancellando qualsiasi tipo di pregiudizio nei confronti del prolifico filone. Quindi bisognerebbe guardare e giudicare il film di Bortone, che con Rosso come il cielo aveva saputo regalare poesia e delicatezza, con uno sguardo adeguato al filone di appartenenza. Fatto questo restano, comunque, dei limiti evidenti che non possono essere ignorati, che ne pregiudicano seriamente la riuscita, a cominciare proprio dall’assemblaggio in fase di scrittura degli ingredienti sopraccitati all’interno di un menù trito e ritrito che sa di minestra riscaldata, scandito in successione dall’elenco di una decina di regole trasmesse di padre in figlio, che consentiranno a quest’ultimo di conquistare il cuore della bella di turno attraverso scientifiche tecniche di abbordaggio. E in questo trasferimento di sapere vediamo coinvolti Marco, giovane appassionato di astrofisica che per lavoro insegna all’asilo, e suo padre Renato, chirurgo estetico che nel molto tempo libero si diverte a entrare e uscire dai letti di donzelle sole. In mezzo una sorta di coro greco di coinquilini chiamato a intervenire nel momento del bisogno e il belloccio della situazione, occupato per tutto il tempo a cercare di far sua, con mezzi leciti e illeciti, la principessa del castello. A vestire i panni di questa galleria di personaggi appena abbozzati e delineati per portare avanti quanto basta una narrazione ridotta all’osso, che di originalità ha davvero poco da vendere: Guglielmo Scilla (Marco) meglio conosciuto come Mr. You Tube Willwoosh, Vincenzo Salemme (Renato), il trio di amiconi formato da Fatima Trotta (Mary), Pietro Masotti (Paolo) e Piero Cardano (Ivan), l’acerrimo antagonista Giulio Berruti (Ettore), per chiudere con la deliziosa preda Enrica Pintore (Stefania). Da una parte l’esperto attore partenopeo fa il suo, mentre il resto del cast fa quel che può e si vede.

Non resta a questo punto che arrendersi alla triste evidenza: si deve pur fare cassa. Ed è proprio di questo che si tratta quando ci si avventura nell’analisi di un film come quello di Bortone, vale a dire nell’identificazione di un’operazione cinematografica che si accontenta, con pochissime pretese al di là del ritorno economico al botteghino, di apparire agli occhi e alle orecchie degli spettatori come un manuale filmico fatto di immagini in movimento e di parole sottratte qua e là ai bigliettini dei baci Perugina. Ma la cosa più incredibile di tutte è che dopo aver visto 10 regole per fare innamorare, si arriva persino a rimpiangere (che gli spiriti dei miei grandi predecessori possano perdonarmi per quello che sto per dire) i film di Moccia.

Francesco Del Grosso         


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