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Creato il 11 novembre 2013 da Malvino
La vicenda personale di Silvio Berlusconi scuote violentemente il partito che si identifica nella sua persona, mettendone a rischio l’integrità, tra il rischio di scissione e quello di dissoluzione. Siamo dinanzi al paradigma del movimento politico che lega irreversibilmente le proprie sorti a quelle del proprio leader, poco importa se fin dalla fondazione, com’è in questo caso, o per sopravvenuta mutazione.I motivi perché questo accade e i modi in cui questo si realizza possono essere analizzati col metro psicologico, con quello sociologico o con quello che integra entrambi nel metodo scientifico che è proprio della psicologia sociale. Quale che sia lo strumento di analisi, tuttavia, ciò che porta un movimento politico a ritenere vantaggioso investire tutto se stesso in un solo uomo rimane un bel rompicapo, sicché ciascuna delle espressioni fin qui usate per significare questa scelta («si identifica nella sua persona», «lega irreversibilmente le proprie sorti a quelle del proprio leader», «investe tutto se stesso in un solo uomo») ne danno conto solo in un aspetto, che non la risolve interamente.In realtà, siamo dinanzi ad una scelta che è – insieme – di totale investimento, piena identificazione e indissolubile legame, ma anche di un di più, che è quanto questa scelta produce in ordine alla struttura del movimento politico, alle relazioni tra i suoi membri, tra i suoi membri e il leader, e alla percezione che essi sono indotti ad avere di ciò che è «dentro» e di ciò che è «fuori» il perimetro della «pars» fatta «partito».Anche così caratterizzata nella sua natura, tuttavia, la scelta non svela ancora le sue ragioni, rimandandole però ad una condizione di necessità che sembrerebbe renderle cogenti. In pratica, ciò che porta un movimento politico a fare del proprio leader la ragion sufficiente della propria esistenza non sarebbe neppure una «scelta», ma una decisione necessitata dalla inadeguatezza delle opzioni alternative.Qui ritorna la questione che prima abbiamo in qualche modo accantonato dichiarando legittima l’analisi del fenomeno sia sul piano psicologico, sia su quello sociologico, sia su quello di intersecazione dei due piani: la condizione di necessità è posta da fattori esterni, da fattori interni o dalla combinazione di fattori esterni e interni? Per meglio dire: nel fare del proprio leader l’intestatario unico ed esclusivo di un dominio che coincide con la «pars» nella quale si decide l’inclusione, si risponde a una necessità che è nell’individuo, eventualmente in ciò che fa dell’individuo un polo relazionale, o a una forma maggiore posta da una determinata struttura della relazione? Ancora meglio, cioè prendendo a esempio proprio il caso di specie: cos’è che porta a ritenere naturale, se non giusto, che il destino di un movimento politico sia indissolubilmente vincolato a quello del suo leader? Dipende dalla «pulsione gregaria» che costituisce la caratteristica indispensabile per poter essere reclutati in movimenti politici di questo genere o si tratta piuttosto di un effetto collaterale della cosiddetta «personalizzazione della politica» dopo la crisi dei partiti a forte impronta ideologica?Quello di Silvio Berlusconi sembrerebbe offrirsi come caso di scuola a dimostrare la validità della seconda ipotesi, come d’altronde è per gli altri movimenti politici che hanno mosso i passi dopo la «morte dell’ideologia»: quale miglior esempio di Forza Italia per la dimostrazione dell’assunto che, al venir meno di un saldo sistema ideologico di riferimento, un movimento politico sia in qualche modo costretto a investire tutto su un nome, una faccia, una storia personale? Non bastasse questo esempio, si pensi alla crisi in cui l’Italia dei Valori è precipitata dopo l’infortunio televisivo che ha del tutto rovinato la già malferma reputazione di Antonio Di Pietro, o a quella, seppur meno drammatica, cui irreversibilmente pare andare incontro la Lega Nord che fu di Umberto Bossi. Sennò si pensi a un movimento che pure pare in buona salute, com’è il M5S, ma che nessuno riesce a immaginare integro ad un’eventuale uscita di scena di Beppe Grillo.Trattandosi di movimenti politici che sono nati tutti dopo la crisi del partito che trovava la propria ragion d’essere (o almeno la sua intestazione nominale) in un’ideologia (o almeno in una tradizione ideologica) di riferimento (nel caso della Lega Nord, possiamo dire che sia nata in questa crisi), parrebbe di poter ragionevolmente concludere che il fenomeno sia possibile solo alle condizioni poste da un contesto che favorisca (come in realtà ha favorito) la trasformazione della fidelizzazione ideologica in un eterogenea e spuria serie di fattori che concorrono al reclutamento di fan sotto un’insegna di cui è titolare un leader carismatico. In parte è vero, ma solo in parte, perché il «partito» che nel culto della personalità del proprio leader vedeva un momento indispensabile del farsi «pars» non è un oggetto nuovo, anzi, è la forma più ancestrale di appartenenza a un gruppo della specie umana.In tal senso, nell’appartenenza ad un movimento politico che fa del proprio leader – insieme – capo indiscutibile ed entità totemica possiamo riconoscere un momento di regressione della vita di gruppo alle forme claniche e tribali. Da ciò, tuttavia, non è lecito inferire che il partito a forte impronta ideologica sia esente da tali forme di regressione, basti pensare alle esperienze totalitaristiche del secolo scorso.In buona sostanza, sembrerebbe che il fattore esterno (la «personalizzazione della politica») sia solo in grado di potenziare quello interno (la «pulsione gregaria»), semplicemente latente anche quando sembri assente. Ce n’è di che mettere da parte tanta inutile discussione politica per una più proficua riflessione sulla psicopatologia dei gruppi. Il fatto è che abbondiamo di notisti, opinionisti e retroscenisti, e difettiamo di esperti delle patologie relazionali.   

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