11 cose che ci hanno rovinato da piccoli

Creato il 28 settembre 2012 da Lundici @lundici_it

Se siamo dei disadattati, se non sappiamo vivere come si deve l’amore, il sesso, la religione e il tempo libero; se abbiamo un’idea distorda dell’Europa; se siamo schiavi del mutuo per la casa; se esistono squali della finanza;  se non siamo capaci di tenere in mano un cacciavite … non è colpa nostra, è che ci sono state delle cose che ci hanno rovinato da piccoli. Per esempio queste Undici.

Barbie e macchinine infestano le nostre città

1. Le macchinine per lui e la Barbie per lei

Si accumulavano macchinine, il gioco era averle, non servivano come mezzo di trasporto. E così ci siamo convinti che accumulare auotomobili fosse necessario indipendentemente dal loro utilizzo. E bisognava comprarne sempre di nuove anche se potevamo giocare benissimo con quelle che già avevamo. Se le nostre città sono intasate dal traffico, se è impossibile trovare parcheggio, se ancora oggi ci sembra normale pagare le tasse per dare soldi alla FIAT il peccato originale sta proprio in quegli armadi pieni di macchinine.
Mentre i bimbi maschi ammassavano piccole quattroruote,  le bimbe femmine riempivano scatoloni con Barbie, vestiti per le Barbie, gadget inutili per le Barbie. L’unica fantasia che le Barbie potevano generare nelle bambine è stata quella di desiderare vestiti su vestiti, la maggior parte dei quali più adatti a meretrici che non a bambine delle elementari. Si incolpano veline  e TV commerciale, ma le Barbie sono venute prima.
Una generazione cresciuta con macchinine e Barbie non sarà mai pronta al downgrade che la crisi ci impone.

2. I Lego e il Meccano

Voi che giocavate al meccano, venite a montarmi la scarpiera se ne siete capaci

Avete grosse difficoltà a montare un cassettone IKEA? Non riuscite a trovare un uomo che sappia tenere in mano un cacciavite? Eppure tutti noi da piccoli abbiamo trascorso lunghi pomeriggi ad incastrare mattoncini colorati dando alla luce le più fantasiose costruzioni. Erano i mitici Lego che ancora oggi imperversano nelle camere di tutti i bambini.
I figli dei genitori più sadici avevano addirittura il Meccano. Il Meccano, meno popolare del Lego, era una scatola che conteneva numerose sbarrette di metallo traforato che potevano essere assemblate per costruire qualsiasi cosa. O almeno così ci faceva credere il libretto di istruzioni perché i bambini normali al massimo costruivano un carretto illudendosi di essere abili manovali.

I bambini si divertivano un sacco (almeno con i Lego, se un bimbo si divertiva con il Meccano era già la manifestazione di un disagio che prima o poi sarebbe esploso)  e i lunghi pomeriggi invernali trascorrevano tranquillamente in casa. I nostri genitori ci dicevano che questi giochi avrebbero stimolato la fantasia, la manualità, la capacità di costruire cose. Oggi quando apriamo lo scatolone dell’Ikea o dobbiamo montare le ruotine nella bici del bambino sappiamo finalmente che era sono una fregatura. Pomeriggi spesi a fare costruzioni non ci hanno lasciato niente. Purtroppo abbiamo imparato di più quando giocavamo con le macchinine.

In una società più libera chi chede il mutuo per comprare la casa dovrebbe fare tre passi indietro con tanti auguri

 3. Il Monopoli

L’impulso che abbiamo oggi a comprare case, ad ambire a 4 case a Parco Della Vittoria quando stiamo già benissimo nel nostro appartamentino in Vicolo Stretto ha chiare origini nel gioco del Monopoli. Se oggi la gente si indebita per accumulare mattoni e lavora per pagare il mutuo di una casa che non può permettersi è perché ce lo ha insegnato il Monopoli e non riusciamo ad emanciparci dal suo infausto influsso culturale.

Nel Monopoli poi esistevano imprevisti tipo la tassa patrimoniale e imprevisti che potevano portare in prigione il palazzinaro (facendo tre passi indietro con tanti auguri), ma questo è servito solo a illuderci che esistesse una giustizia sociale che al di fuori dei giochi per bambini non c’è. L’influsso del Monopoli ci ha lasciato solo debiti e grigie periferie tirate su in tutta fretta.

4. Il dolce forno

Senza il dolceforno avremmo avuto un’alimentazione più serena. E migliori palinsesti in TV

Sfornava focaccine dalla controcopertina di Topolino, circondato da affaccendate minidonnine sorridenti. Ennesimo strumento di propaganda presso le bambine dei tradizionali compiti donneschi di cura e assistenza, il Dolce Forno instillava nelle giovani menti l’idea che con gli arnesi adatti all’uopo e seguendo precise istruzioni creare manicaretti prelibati sarebbe stato facile quanto  fabbricare formine con la sabbia. Magari lo negheranno, ma di sicuro anche Benedetta Parodi e Antonella Clerici hanno iniziato col Dolce Forno: e anche sul ricordo di quegli esperimenti infantili si fonda la menata del genio gastronomico e della creatività in cucina – che attualmente dà nefandi esiti come la naturalezza con cui si pagano venti euro per una pasta e fagioli in un ristorante semibuio e gestito con supponenza, le dolorose produzioni casalinghe di immangiabili associazioni insalatiere di ananas, cumino e manzo bollito freddo, l’utilizzo insensato di locuzioni come “su un letto di” e l’abbinamento dell’aggettivo “simpatico” a verdure nauseabonde, nonché l’occupazione armata dei palinsesti televisivi da parte di programmi in cui si guarda preparare un piatto buonissimo mentre sul divano ci si ingozza di schifoso passato di verdura. Ammettetelo: cucinare non è divertente, cucinare bene non è affatto facile e, soprattutto, non è obbligatorio essere bravi in cucina. Si campa meravigliosamente anche di panini, mele non sbucciate e riso col burro. Vi sentite frustrati dalla scarsa sapidità della vostra amatriciana? A tarda sera piangete sul lievito madre che si ammoscia? Tutta colpa del Dolce Forno. Rifugiatevi in rosticceria.

Ore e ore a giocare a nascondino. Il passo successivo sono la nostalgia o le droghe chimiche e gli after hour per condensare un’estate in una notte sola

5. I tre mesi di vacanze estive

Siamo stati segnati per sempre dai tre mesi interi di vacanze estive. Vacanze vere: nel senso che vacava tutto, non c’era niente, forse un po’ di colonia per qualcuno, e poco di più. Niente di organizzato, no obblighi, no orari. Novanta mattine (circa) di seguito ad alzarsi tardi e non fare niente se non giocare e divertirsi. No campi solari, no educatori, no animatori, no perditempo in canzoncine e balli; no corso di tennis, di nuoto. Molti nonni, ma anche mamme, cortili roventi, infinite partite di pallone su strade disertate dalle auto fino a ben dopo il tramonto, eterne sessioni di nascondino. Coi sandaletti in tela e in canottiera per tre mesi interi. Ci si annoiava di divertirsi. Un mondo meraviglioso che per tutta la vita inseguiamo incessantemente, ogni volta che giochiamo un euro al Superenalotto, che progettiamo di aprire un chiosco di piadina su una spiaggia messicana o di arrosticini a Goa: un mondo senza scadenze e senza responsabilità, a piedi nudi e in canottiera.

6. Lo scambio di figurine

Probabilmente Soros avviò il suo impero scambiando uno scudetto del Taranto con una quantità di BTP pari a un terzo del debito dello stato

Gioia delle ricreazioni dei nostri giorni alle elementari e medie, lo scambio di figurine è una delle principali palestre di vita del giovine nell’età della formazione: sviluppa il fiuto, l’astuzia, la capacità di negoziare, si diceva. Mio fratello, negli anni 70 della rigida pianificazione centrale non sfuggiva alla regola: ogni figurina si scambia 1:1 con le altre, tranne gli scudetti che si scambiano 2:1. Appena cinque anni dopo, negli anni ’80 dello yuppismo, scambiai un misero scudetto del Taranto prima per 10, poi per 15 e due settimane dopo per 30 figurine (lo pescai tre volte). Ma è così che poi si creano i mostri: i più fortunati diventeranno bagarini; i più sfigati – quelli che si convinceranno di essere veramente bravi – faranno i promotori finanziari. Anche il Madoff dei Parioli, si dice, iniziò facendo trading allo scoperto su Pruzzo e De Nadai.

7. La bella e la bestia

Tutti conoscono la storia della bella e la bestia: una fanciulla dolce e carina in nome di valori improbabili si sacrifica ad una bestia, ma con la forza del suo amore riesce a trasformare la bestia in un docile e premuroso principe. Questa storia ve l’hanno raccontata da piccole ed hanno fatto malissimo perché ci avete creduto. E sono piene le case di donne accompagnate con grevi figuri, volgari puttanieri, uomini ignoranti e violenti. Sì loro pensavano che il loro amore avrebbe trasformato quelle affascinanti bestie in docili compagni, ma non poteva andare così perché la magia che trasforma una bestia in un principe esiste solo nelle favole. Nelle peggiori.

7.bis Candy Candy

Il messaggio di Candy è: l’amore è sofferenza, privazione, solitudine. Sapevatelo!

Chi è scampata alla sindrome di La bella e la bestia difficilmente è riuscita a scampare ad un altro insidioso tranello: Candy Candy. L’amore per Candy Candy è rinuncia, sacrificio, solitudine: io rinuncio a lui perché lo amo. Anche lui mi ama, ma l’altra ha più bisogno. E via ad una vita da crocerossina. Maledetta Candy, per essere un buon esempio avresti dovuto prenderti Terence e mandare al diavolo tutto il resto.

Giochi senza frontiere avrebbe dovuto farci capire a quale Europa saremmo andati incontro

8. Giochi senza frontiere

Trois, deux, un, fiìììì. La prima Eurovisione della storia della RAI non era per le partite di Coppa (che fino al 1982 le dirette coprivano a malapena la finale di Coppadeicampioni), ma per il mitico, meraviglioso, inarrivabile Giochi senza frontiere, con i suoi improbabili arbitri svizzero-italiani, per non parlare dei presentatori italiani, prima Marchetti-Vaudetti, poi Ettore Andenna e una (notevole) Milly Carlucci che si presentava in pattini a rotelle (pare che avesse trascorsi in una non meglio precisata nazionale). Era meraviglioso vedere questi bei ragazzoni biondi, alti e nerboruti del nord Europa fare a fette noi italiani piccoli e neri (e un po’ anche i franzosi, il che ci consolava). E mentre si era lì a tifare, che i nostri non sprecassero il jolly e non facessero la immancabile cagata nel fil rouge, ci si convinceva che ormai l’Europa era fatta e con un paio di puntate sarebbero stati fatti anche gli europei. E invece, tutto quello che è arrivato fino a noi dai JSF sono lo spirito da villaggio turistico e il senso di superiorità dei Paesi del nord: come puoi sperare di parlare alla pari alla Merkel, quando la Germania su 16 edizioni ne ha vinte 6, mentre noi su 30 solo 4 (3 delle quali quando i crucconi si sono finalmente levati dai coglioni)?

PS: per i nostalgici, quelli che si vogliono fare del male ad ogni costo, c’è la possibilità di firmare la petizione per il ritorno di JSF (http://www.gopetition.com/petitions/per-il-ritorno-di-giochi-senza-frontiere-jsf.html). Io ho già firmato.

9.  Coloranti, edulcoranti, conservanti e tutta la chimica nel cibo

Siamo cresciuti con cibi finti e colorati, e adesso smettete di menarcela con lo slow food e i corsi da sommelier

L’alimentazione del bimbo italiano tra anni Sessanta, Settanta e Ottanta era ampiamente dominata dalla chimica: i suoi colori e sapori hanno costruito il nostro senso del gusto, hanno condizionato il nostro olfatto e le nostre abitudini alimentari. Nessuno ci darà più le merendine colorate, le caramellone sgargianti, i ghiaccioli verdi e rossi, le chiassose spume, le patatine migliorate con chissà quale aroma, le farciture di panna finta nei dolcetti colorati di rosa! Bambini! Se i vostri genitori sono nati in quel trentennio, non credete loro quando vi raccontano della genuinità dei manicaretti della loro infanzia! Mentono: la chimica era già ovunque! Hanno scordato le farciture di improbabili creme nelle merendine tempestate di palline colorate, le gelatine ridipinte quasi a mano!
E poi come siamo finiti? Nei decenni seguenti, ci siamo divisi in due grandi correnti di pensiero e di alimentazione, che ogni giorno incrociano le spade nelle cucine e nei mercati: i consapevoli dell’infanzia chimica che hanno sposato il “naturale” e “biologico”, che vivono sproloquiando sui veri sapori di frutta e verdura (che non hanno MAI conosciuto perché sono scomparsi con gli anni Cinquanta, insieme al bucato fatto con la cenere) e si sono subaffittati in nero da un furbo settantenne un lurido orto ai bordi della tangenziale, e i fanatici dell’aromatizzato a tutti i costi, che hanno trascorso gli anni Ottanta sulle panche in finto frassino delle Paninoteche a farsi di tabasco e salsa rosa e poi (schivata la rucola e il risotto alle fragole) si sono buttati sul Vino, alla ricerca del sapore forte perduto nelle nebbie dell’infanzia, impazzendo per stanarlo nel sentore di frutti rossi, cuoio e ‘staceppa dentro un qualunque rosso corposo. Smarriti tutti, martirizzati dall’aromatizzante.

Fate un po’ come cazzo vi pare, tanto è l’ora di religione

10. L’ora di religione

Polemiche continue sull’ora di religione a scuola evidenziano una cosa: chi ne parla non sa assolutamente di cosa si tratti. L’ora di religione serviva nel migliore dei casi a fare i compiti per l’ora dopo o a improvvisare partite a carte (nei vostri ricordi troverete senz’altro cose meno convenienti). Sacerdoti o frati svogliati nascondevano la loro impreparazione dietro la magnanimità del “fate un po’ quello che volete, ma cercate di non disturbare”. Le ore di religione sono servite a sedimentare l’idea dell’inutilità della religione  stessa facendola passare come un argomento di cui non vale la pena occuparsene. Quando è arrivata la possibilità dell’esonero abbiamo capito: l’ora alternativa non conteneva nulla, proprio come quella di religione. E poi adesso vengono a farci delle storie col relativismo…
Da grandi abbiamo imparato che l’ora di religione a scuola a qualcosa in realtà serve: permette alla Curia di piazzare soggetti a lei vicini che altrimenti non avrebbero i requisiti per svolgere alcun lavoro, tanto a guardare ragazzi che giocano a carte sono capaci tutti. I soldi li mette lo stato, ovviamente.
E così si prende la maturità non riuscendo a spiccicare una parola di inglese, non avendo mai studiato informatica, ma avendo buone probabilità di diventare dei campioni della briscola.

11. I film porno

Tutti quanti hanno visto dei film porno (a parte chi scrive naturalmente) e visto che ci si confrontava solo con chi aveva le nostre stesse esperienze la nostra idea di sesso viene inevitabilmente da lì. Da giovani fa impressione tutto quel vociare di gemiti, che poi quando fai l’amore ti senti come un po’ obbligato a emettere suoni di ogni tipo e c’è gente che farebbe meglio a coltivare un dignitoso silenzio. Questi simpatici filmati ci hanno convinto che basti sfiorare il seno ad una donna per farla gemere, che se una sale su una scala a pioli è perché ha voglia di un amplesso, che se due persone fanno all’amore non vedono l’ora che altre si aggiungano alla compagnia, che gli uomini hanno membri enormi sempre eretti e muscoli portentosi per fare roteare le loro compagne.

Quando si iniziano a guardare i porno bisognerebbe sapere che un porno è come un diamante: è per sempre

Gli uomini si rovinano con la questione dimensioni e persino le donne si convincono che questa cosa delle dimensioni maschili è fondamentalissima, e nella realtà ci si rimane tutti quanti di merda per una cosa che ha un’importanza relativissima. I film porno sono in qualche modo cinema che, si sa, è bigger than life. Anche sotto le mutande.
Nei porno poi le amiche della moglie sono sempre dele gran porche e la moglie è contenta se il marito fa sesso con loro. La cellulite non esiste a meno che uno non scelga il film dallo scaffale “file under cellulite”.
Ecco se siamo stati educati così sapete cosa aspettarvi da noi: maschi insicuri e complessati e/o uomini che vivono il sesso come una competizione olimpica o come un’attività da riprodurre in serie.


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