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Visto
che già da qualche tempo va prendendo piede l’uso
del termine renzismo,
credo non sia affatto superfluo cercare di darne una definizione sul
piano lessicale, sicché al netto di ogni giudizio in merito si possa
concordemente convenire su cosa esattamente sia. Ora, se per
definizione
è da intendersi l’individuazione
e l’illustrazione
delle proprietà essenziali che danno piena ragione della relazione
funzionale tra significante e significato, che poi sarebbe la
definizione di definizione
che più compiutamente dà conto di ontologia, logica e linguaggio,
il nostro tentativo non può procedere che dal decidere in quale
categoria di termini che sfruttano il suffisso -ismo
sia più opportuno collocare il renzismo.
Con l’-ismo,
in questo caso, saremmo dinanzi a una dottrina?
Penso si debba escluderlo. Nulla, infatti, nel renzismo
rimanda ad un organico sistema di principi, anzi, direi che in questo
caso ne sia esplicito il rigetto, per la rigidità che sempre
caratterizza un simile costrutto. Il renzismo,
infatti,
rivendica con orgoglio il rifiuto della dimensione ideologica, e
dunque è quanto mai distante da qualsivoglia impianto di tipo
dottrinario, in favore, al contrario, di un insieme di assunti
valoriali – chiamarli principi sarebbe improprio – così
eclettico, mobile e disarticolato da rendere del tutto vana la
ricerca di un criterio che dia ad essi una struttura sistematica. E
allora, se non è una dottrina, cos’è
il renzismo?
In quale categoria di termini che sfruttano il suffisso -ismo
è da porre? Direi
non abbia a trovar posto nella
categoria di termini che indicano movimenti religiosi, filosofici,
letterari, artistici, tanto meno in quella che include fenomeni
fisici, funzioni organiche, processi naturali, ecc. Rimangono solo
due categorie, ma entrambe molto eterogenee, per giunta con un’ampia
area di intersezione. Anticipo fin d’ora
che a mio modesto avviso il renzismo
si situi proprio in questo sottoinsieme comune alle due categorie di
termini che ancora non abbiamo preso in considerazione, e cioè a
quella che include fenomeni sociali – dunque anche politici, seppur
nell’accezione
più ampia del termine – e a quella nella quale troviamo tutto
l’ampio
spettro delle configurazioni caratteriali che sono oggetto della
riflessione morale e di quella psicologica. A scanso di equivoci,
però, è bene precisare che quando la politica rigetta la dimensione
ideologica – e questo, come abbiamo già detto, è il caso del
renzismo
– accade giocoforza che sia portata a dare notevole risalto ai
tratti della narrazione individuale o collettiva che va a surrogarne
l’elemento
identitario, indispensabile a darle una cifra che serva a farla
riconoscere, e questo, di regola, implica la fondazione di uno
statuto
etico-estetico, il quale, a differenza di una Weltanschauung,
non è tenuto a darsi una logica di sistema. Ne consegue che l’-ismo
perderà,
allo stesso tempo, sia ciò che conferisce peculiarità di
connotazione sul piano della teoria politica, sia ciò che consente
l’individuazione
descrittiva di un profilo morale o psicologico. Con ciò siamo
nell’area
di intersezione cui facevo cenno prima, e il renzismo
vi si inscrive a pieno titolo proprio in virtù di questa doppia
perdita: patente inclinazione a esplicitarsi tutto nei mezzi
piuttosto che nei fini, con ciò esaurendo in mera postura tattica
una ambivalente, quando non ambigua, contraddittoria e perfino
confusa, posizione politica; ipertrofia del carattere in maschera,
con ciò che ne consegue in fissità e regressione della
configurazione morale o psichica del modello che si accredita.
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