Steve McQueen aveva già dimostrato le sue doti grazie a Hunger e a Shame (film dall’ottima regia, nonostante un discreta dose di ruffianaggine morale), ma con 12 anni schiavo supera se stesso e lo fa riscrivendo uno dei capitoli più bui della storia degli Usa, se non il più buio: quello dello schiavismo negli stati del sud, visto però dalla prospettiva – inedita – di un uomo che nasce libero (nello stato di New York) e che solo in età adulta conosce l’orrore della schiavitù. Il regista ha giustamente ritenuto che un tale punto di vista e una tale storia avrebbero potuto aiutare nell’identificazione spettatoriale e nell’acquisizione della consapevolezza che la schiavitù è molto diffusa ancora oggi, in diverse forme e in molte parti del mondo.
Non si può fare a meno di notare, fin dall’inizio, lo stile registico caratteristico di McQueen: si tratta di uno stile asciutto, elegante, anti-retorico per eccellenza, cosa che va a scontrarsi totalmente con lo stile tendenzialmente drammatizzante con cui siamo spesso abituati a visualizzare – e a vedere – al cinema e in TV fatti una storia di una drammaticità di questo calibro.
E’ forse per questo motivo che alcuni spettatori lo hanno trovato disturbante: è come se il regista ti mettesse più di una volta nella posizione di un testimone oculare della scena ma ad una distanza tale (campo lungo) da non poter “aiutare” sentimentalmente o empaticamente il protagonista e gli altri individui nel momento in cui subiscono violenze e ingiustizie, allo stesso modo in cui gli altri schiavi si trovano in una posizione tale che non permette loro di osare soccorrere seriamente Salomon per ore dal suo martirio. Quest’ultima scena, non a caso, è racchiusa quasi del tutto in un lunghissimo interminabile piano sequenza: 12 anni schiavo è esattamente l’opposto del tipico “filmone” politically correct a tema perché non si esime dal mostrare la sofferenza così com’è ma al tempo stesso non la sfrutta emotivamente nel senso più banale del termine e di ciò che filmicamente induce solitamente a commuoversi. Ciò vale in particolar modo per la prima parte del film, dove la regia così perfetta e tesa come una corda di violino non lascia volutamente spazio a commozione e pena ma ai fatti effettivi, che devono rimanere impressi: del resto è quella parte in cui Salomon non si sente ancora del tutto schiavo, pensa ancora di poter far valere qualche qualità e qualche merito nella sua condizione, una situazione che conduce a fortissime ripercussioni e umiliazioni psicologiche ma soprattutto fisiche di corpi in carne ed ossa martoriati nello spazio. Qualche spazio per la commozione ha luogo solamente dalla sublime liberatoria scena del canto gospel, dove l’intensissima recitazione di Chiwetel Ejiofor raggiunge i suoi picchi massimi. Per il resto c’è da dire che 12 anni schiavo è estremamente curato sotto tutti i punti di vista: fotografia, scenografie, costumi, musica, tutto al posto giusto e scelto con classe. La scelta dell’intero cast è poi ovviamente particolarmente felice a cominciare dal protagonista – “Atlante” del film che ne regge il peso consistente – secondo Michael Fassbender con il tocco di follia psicotica indotto al personaggio del padrone cattivo, che così non è più semplicemente tale, in terzo luogo Lupita Nyong’o e Benedict Cumberbatch, anche ognuno dei personaggi minori (vedi i personaggi di Paul Dano e di Brad Pitt), contribuisce in modo interessante, nessuno escluso, a costruire un pezzo di un puzzle di umanità che viene descritta in modo non manicheo, ma al contrario con le sue differenti gradazioni di crudeltà, sadismo, ignoranza, fondamentalismo, psicosi, ignavia, pregiudizio.
12 anni schiavo è candidato a 9 premi Oscar e uscità nelle sale italiane giovedì 20 febbraio 2014.