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A manifestarlo è la stessa regia di Steve McQueen che per la prima volta in un suo lavoro si limita ad assumere le vesti di narratore, disimpegnandosi di quelle, portate assai meglio, di eccellente autore. E questa, diciamo, è la notizia più rilevante della sua ultima pellicola che quindi inaspettatamente va a soffrire del mancato estro del suo pilota, sostituito a sorpresa da una versione semi-automatica di sé stesso di cui ancora nessuno conosceva l'esistenza. Inevitabile allora che "12 Anni Schiavo" diventi oltre il consentito un cosiddetto film d'attori, nel senso che a tenere banco sono - per gioco forza - le interpretazioni dei molteplici interpreti che si scambiano il turno al fianco dell'intenso Chiwetel Ejiofor. Benedict Cumberbatch, Brad Pitt, Michael Fassbender, con quest'ultimo abilitato a lasciare maggiormente un segno indelebile perché sostenuto da un ruolo molto simile a quello di Calvin J. Candie impersonato da Leonardo DiCaprio in "Django Unchained": agguerrito quindi della stessa cattiveria e con colori un tantino meno saturi ma ugualmente caldi e bollenti.
E' una storia vera "12 Anni Schiavo", che va ad aggiungersi a quel filone, ultimamente in primo piano, di pellicole interessate a porre una lente d'ingrandimento priva qualsivoglia filtro sui trattamenti e le condizioni bestiali ricevute dai neri durante il periodo in cui possedere un essere umano era considerato lecito perché legale. Per mezzo dell'inganno in cui cade Solomon perciò, McQueen apre il suo esclusivo sguardo sul commercio di vite umane, su padroni (uomini e donne) senz'anima misti ad altri vittime di sé stessi, e ricopre l'intera miscela sottolineando, con tono anche retorico, la costante di un uguaglianza globale che andrebbe sempre messa avanti a tutti, persino alla legge, a prescindere che questa sia emessa in maniera giusta o sbagliata.
La dura verità, in ogni caso, è che dopo il già citato "Django Unchained" andare a dire o voler mostrare qualcosa di nuovo rispetto alla schiavitù è davvero divenuto una sfida. Steve McQueen per realizzare la sua opera ha praticamente annullato la sua persona dietro la macchina da presa, freddando di fatto il suo tocco sincero e affilato. Lo stesso è accaduto a molti altri prima di lui mentre Quentin Tarantino, al contrario, pur avendo trattato con rispetto la tematica, ha lasciato che a prevalere fosse innanzitutto il suo impeto, mettendo la sceneggiatura sempre al servizio di esso e vincendo ogni tipo di confronto.
Chiaramente una tale valutazione potrebbe aprire discussioni su come per un bianco possa essere meno amaro trattare determinate questioni rispetto ad un nero, ma sta di fatto che al cinema la ragione è sempre di colui che riesce a raccontare una storia nella maniera più straordinaria possibile rendendola, infine, indimenticabile. E la parabola del Django di Jamie Foxx, per nostra fortuna, nessuno ha voglia di dimenticarla.
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