12 anni schiavo, oscar miglior film: mcqueen-fassbender garanzia

Creato il 13 marzo 2014 da Postpopuli @PostPopuli

di Francesco Gori

Vincitore dell’Oscar 2014 come “Miglior film”, 12 anni schiavo conferma Steve McQueen tra i giovani registi di maggior talento, dimostrato già in occasione di Shame e, soprattutto, Hunger, la storia di Bobby Sands.

Confermata anche la coppia McQueen-Fassbender, con l’attore tedesco-irlandese stavolta nei panni dello schiavista Edwin Epps.

La storia è quella vera di Solomon Northup (tratta dalla sua autobiografia), un violinista di colore che vive libero e in condizioni agiate a Saratoga, con moglie e figli. Siamo nel 1841, la sua vita felice viene interrotta in maniera brusca dal tranello di due agenti dello spettacolo che lo ingaggiano per una serata al circo, per poi drogarlo e venderlo ad uno schiavista senza scrupoli, interpretato da Paul Giamatti. Questi conduce la tratta dei “negri”: uomini, donne e bambini ceduti all’acquirente più facoltoso. Solomon si ritrova “cosa” in mano a tre padroni in successione: il più buono è William Ford, dal quale però è costretto ad allontanarsi dopo i conflitti con il guardiano Tibeats, il più violento è Edwin Epps, nelle cui piantagioni di cotone passerà la maggior parte dei suoi anni da schiavo.

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Il conflitto tra voglia di libertà, desiderio di ribellione e impossibilità di fuga, pena impiccagione, contrassegnano la nuova “non vita” del personaggio interpretato dal candidato oscar Chiwetel Ejiofor, che resiste stoicamente alle frustrate quotidiane senza cedere alla disperazione, come la madre strappata ai figli (Eliza), o come l’adolescente da 500 e passa libbre di cotone (Patsey), oggetto di attenzione sessuale del bieco ubriacone Epps. Anzi, Solomon si nutre per combattere, affila la sua mente respingendo i personaggi perfidi che via via si succedono, e progetta continuamente il modo per tornare ad acquisire la sua vera identità, ben lontana da quella dello schiavo “negro” Blatt.

L’occasione arriverà grazie a Samuel Bass (Brad Pitt), finalmente un umano in un mondo di uomini (e donne, compresa la cinica moglie di Epps) crudeli, vere e proprie bestie – loro sì – di colore bianco, sadici attori di un’esistenza proiettata all’ostentazione della loro presunta superiorità razziale.

Un film che non può lasciare indifferenti: il razzismo è tema ancora attuale, la schiavitù un peccato inammissibile del passato, frutto della misera rigidità mentale di un tempo che ha lasciato impronte di generazione in generazione. Del resto l’uguaglianza, come la democrazia, sono conquiste tutto sommato recenti rispetto all’enorme arco di vita dell’essere umano e il ricordo di tali espressioni di violenza, benché adesso inconcepibili, deve rimanere vivido in noi, per annientare qualsiasi tentativo di ritorno. È questo uno dei grandi pregi della pellicola di McQueen: catapultarci in una dimensione poco conosciuta e renderci consapevoli, attraverso una tensione narrativa costante, delle bassezze a cui può arrivare l’uomo.

Che la regia tenti di spettacolarizzare il dolore, come il sesso in Shame, fa parte del gioco del cineasta: è questa la sua impronta cinematografica, che piaccia o meno. Così come la scelta della potenza visiva, altro marchio di fabbrica, della descrizione dei fatti con immagini che sono colpi allo stomaco, senza necessità di sentimentalismo alcuno: stavolta sono le schiene segnate dagli schiaffi continui delle fruste a catalizzare l’attenzione, è il corpo, ancora una volta, il mezzo di comunicazione prediletto da Steve McQueen.

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E poi ci sono loro, gli straordinari interpreti: Ejiofor, col suo sguardo perennemente aggrottato e sofferente, il corpo – appunto – segnato e sudato; e Fassbender, volto, barba incolta e fisico da perfetto giustiziere perverso, con lampi di eccelsa follia. Completano il mosaico di un film da non perdere, le lande desolate della Louisiana, terreno di solitudine con lampi di bellezza come il cotone bianco nel cupo dolore di ogni negro, come le bambole di Patsey, come i canti di supporto reciproco durante la raccolta. Briciole nelle tragiche esistenze di ogni schiavo che combatte per vivere.

Come dice Solomon, del resto: “Non voglio sopravvivere, voglio vivere”.

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