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Il regista si concentra sulla resa realistica delle condizioni di vita del protagonista ma non riesce ad approfondirne il dramma. Gli sfugge così la vera natura dello schiavismo
di Gaetano ValliniIl dovere della memoria passa anche attraverso il cinema. Più volte, infatti, il grande schermo si è fatto carico di mantenere vivo il ricordo di pagine drammatiche di storia che è bene non dimenticare, come monito per il futuro. È avvenuto in particolare per la Shoah, tema di tanti film. È accaduto, sia pure con minore frequenza, anche per lo schiavismo, tema peraltro richiamato all’attualità dal riemergere del fenomeno della tratta di esseri umani, moderna forma di schiavitù. In particolare l’argomento era stato riproposto con forza di recente da due pellicole di registi di peso, Lincoln di Steven Spielberg e Django Unchained di Quentin Tarantino, che hanno riaperto, sia pure con ottiche diverse, il dibattito su quello che negli Stati Uniti è considerato una sorta di peccato originale. A queste opere si aggiunge 12 anni schiavo del regista inglese Steve McQueen, candidato a nove Oscar, nelle sale italiane dal 20 febbraio. Il film racconta la drammatica vicenda di Solomon Northup, nato libero nello Stato di New York, sposato, due figli, rapito nel 1841 e tenuto in schiavitù nelle piantagioni di cotone della Louisiana fino al 1853, quando s’imbatte in un abolizionista canadese che prende a cuore la sua sorte e lo restituisce alla libertà. Spielberg aveva puntato sulla grande storia per raccontare la battaglia del presidente Lincoln per giungere all’abolizione dello schiavismo (1865) e pacificare una nazione stremata da una guerra fratricida, realizzando un film sulla forza della politica. Tarantino, invece, con il suo classico stile, aveva scelto di giocare sul paradosso narrativo della riscrittura della storia con una vicenda decisamente poco credibile ma comunque efficace; l’intento era denunciare la vergogna della schiavitù, anche se si finiva per derubricare il riscatto del protagonista a vendetta personale. McQueen fa una scelta diversa: per mostrare uno dei capitoli più oscuri della storia punta sul realismo, decide di raccontare con crudezza la sorte di una delle vittime.Come per i precedenti film Shame e Hunger, che descrivevano l’oppressione e l’isolamento dell’uomo derivanti rispettivamente da una dipendenza sessuale e da un regime di detenzione, in 12 anni schiavo il regista vuole soprattutto mostrare l’inesorabile processo di svilimento fisico e psicologico di un uomo sottoposto a sevizie pesanti e continue. E così tra infinite torture inflitte al povero Northup da padroni a volte crudeli per pavidità altre feroci per indole, McQueen lancia la sua denuncia attraverso una rappresentazione esplicita, quasi oscena, della violenza, evitando tuttavia il compiacimento pur mettendo a dura prova lo spettatore. Come quando in un lungo piano sequenza mostra il protagonista appeso a un albero con una corda al collo, precariamente in equilibrio sulla punta dei piedi per non soffocare, mentre la vita intorno continua nell’indifferenza degli altri schiavi.Concentrandosi sulla resa il più possibile realistica delle penose condizioni di vita del protagonista, il regista non riesce però ad approfondirne la psicologia, il dramma interiore, l’intima sofferenza. E così lo si commisera, ci si commuove anche, ma nonostante tutto non si riesce a entrare fino in fondo in empatia con Northop. E ciò non per demerito del pur bravo attore Chiwetel Ejiofor, ma per la scelta narrativa che non regala nulla quanto a pathos al personaggio, mostrato nella sua passiva accettazione della sorte avversa e indifferente a quella dei compagni di sventura. Sembra quasi che l’intento di McQueen non fosse tanto generare compassione verso la vittima, quanto far detestare il cattivo Edwin Epps, interpretato dal suo attore feticcio Michael Fassbender, sadico proprietario terriero che declama l’Antico Testamento per giustificare le inaudite brutalità cui sottopone i suoi schiavi, personaggio paradossalmente presentato con maggiore profondità.Una tale scelta rende meno evidente, fin quasi a eluderla, la questione sostanziale, ovvero il substrato culturale dello schiavismo, con il suo carattere istituzionale rispondente a una logica economica. Restando fedele alla sua cifra narrativa che risente della sua origine di artista visuale — parlare con indubbia originalità dell’universalità di una condizione partendo da una storia particolare — il regista svolge il compito in sicurezza, con uno stile quasi classico. Eppure, nonostante le scene forti, il tutto resta piatto, sospeso tra drammaticità delle situazioni e asetticità del contesto.Cosicché si ha l’impressione che lo schiavismo appaia immorale più per la prassi che per se stesso. Quasi che il fenomeno fosse riconducibile alla cattiveria e all’avidità di quanti ne beneficiavano piuttosto che alla sua implicita disumanità, all’aberrante accettazione e degradante assuefazione da parte della società che aveva deciso di adottarlo. E che per convenienza, ma anche per sgravarsi la coscienza, l’aveva persino legittimato.
(©L'Osservatore Romano – 19 febbraio 2014)
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