127 ore, un film da sconsigliare ai claustrofobici: trovarsi catapultati, senza accorgersene, dall’aperto di un deserto roccioso al buio di una gola strettissima, non è una sensazione piacevole.
Il punto di forza della storia vera di Aron Ralston, è proprio questo. I primi venti minuti sembrano presagire un classico film on the road condito con l’avventura che uno scalatore va a cercarsi; la prima svolta, però, impone di cambiare tutte le aspettative nate fino a quel momento. Quando un masso scivola con lui in un corridoio stretto e lungo, bloccando il suo braccio contro una delle pareti della gola, lo spettatore rimane basito quanto il protagonista: non sembra esserci alcuna via di scampo, si è combattuti tra la voglia di tirarlo fuori e quella di lasciare la sala. Se si resta, non si può fare a meno di affezionarsi ad Aron, metodico e controllato fino all’inverosimile, orgoglioso a sufficienza da non mollare in una situazione disperata come la sua.
La rappresentazione visiva della storia, poi, è fedele al contenuto: riprese sporche e montaggio veloce, impreziosito da parecchi inserti in split-screen, finchè l’idillio resiste. Una volta bloccati nella gola, ci si deve accontentare di staticità e del solo volto di James Franco, capace di reggere da solo le sorti del film, e di un realismo forse troppo crudo, ma comunque pertinente.
La debolezza del film, invece, arriva col finale: enfatico, somiglia troppo a un deus ex machina, sebbene la vicenda ripercorra la vera avventura dell’alpinista che, tutt’ora, non ha rinunciato alla sua passione.