Ce ne parla l'Ing. Tullio Fanelli, Vicedirettore generale dell’ENEA.
Ing. Fanelli, come commenta l’accordo di Bruxelles dello scorso 6 maggio sull'avvio dal 2019 di un nuovo meccanismo del mercato europeo delle emissioni di CO2CO2
Gas inodore, incolore e non infiammabile, la cui molecola è formato da un atomo di carbonio legato a due atomi di ossigeno. È uno dei gas più abbondanti nell'atmosfera, fondamentale nei processi vitali delle piante e degli animali (fotosintesi e respirazione).
, la cosiddetta riserva di stabilità?
Ritiene sia una misura sufficiente per dare il via all’effettiva riforma dell’oramai obsoleto sistema dell’Emission TradingTrading
Attività di acquisto e/o di vendita di prodotti (materie prime o commodities) sui mercati internazionali. (ETS)?
A mio parere l’introduzione della “riserva di stabilità” rappresenta un tentativo inutile di correggere un sistema, l’Emission Trading Scheme, che non è adeguato allo scopo.
Cerco di spiegare brevemente il perché.
L’ETS può apparire, in astratto, un sistema efficiente per la riduzione delle emissioni in quanto si basa, come tutti i meccanismi del tipo “cap and trade” sulla fissazione di un tetto alle emissioni e sul commercio dei relativi diritti; infatti, in caso di corretto funzionamento, il prezzo dei diritti è rappresentativo del costo marginale unitario necessario per realizzare gli interventi utili a rispettare il “cap” e quindi il sistema tende ad allocare in modo efficiente i costi del raggiungimento degli obiettivi stessi.
Tuttavia, sin dalle origini, il meccanismo non soddisfaceva due fondamentali requisiti per il corretto funzionamento di ogni sistema del tipo “cap and trade”:
- il primo è che la grandezza sottoposta a vincolo dipenda esclusivamente dagli investimenti o dai comportamenti che il sistema intende promuovere;
- il secondo è che l’ambito cui il sistema si applica sia un insieme chiuso
Nel caso dell’ETS il mancato rispetto di entrambi i requisiti era ed è evidente, infatti il “cap” è fortemente influenzato dall’evoluzione dell’economia (e quindi dei consumi di energiaenergia
Fisicamente parlando, l'energia è definita come la capacità di un corpo di compiere lavoro e le forme in cui essa può presentarsi sono molteplici a livello macroscopico o a livello atomico. L'unità di misura derivata del Sistema Internazionale è il joule (simbolo J)) in Europa; ne deriva che il conseguimento (o meno) degli obiettivi dipende più dagli scostamenti rispetto alle previsioni economiche che dall’effettiva realizzazione di investimenti o dalla modifica dei comportamenti. Riguardo poi al secondo requisito è evidente che è del tutto possibile delocalizzare, e soprattutto localizzare, la produzione in Paesi extra UE e importare gli stessi beni e servizi nel mercato europeo “aggirando” il “cap”.
La conseguenza, facilmente prevedibile, dell’erronea costruzione del modello ETS è stata che i prezzi dei diritti hanno perso ogni correlazione con il costo degli interventi.
E’ chiaro quindi che il fallimento del meccanismo non è imputabile a cause contingenti (la crisi economica piuttosto che errori nella gestione dei diritti da parte della Commissione), ma alla mancanza, nel sistema ETS, di adeguati presupposti per assicurare che i prezzi dei diritti fossero la misura dei costi necessari per raggiungere gli obiettivi.
Il tentativo postumo della Commissione di “salvare” l’ETS attraverso manovre di “backloading”, ovvero sottraendo al mercato una quota dei diritti disponibili, non è altro che una inadeguata manovra per guidare il prezzo dei diritti verso un target desiderato; ma ciò snatura completamente il sistema che diventa una sorta di mal congegnata carbon taxcarbon tax
Come dice la parola stessa è una tassa sulle emissioni di CO2 causate dalla combustione di fossili, nata per far ricadere gli oneri ambientali e finanziari derivanti dall'immissione di gas serra in atmosfera ai soggetti responsabili. (ovvero un valore dei diritti determinato amministrativamente) con, in più, tutte le complicazioni ed i costi di un meccanismo “cap and trade”.
Nel libro di Agime Gerbeti “CO2 nei beni e competitività industriale europea” si giunge alla conclusione che le emissioni climalteranti debbano essere considerate come un costo industriale, una materia prima del processo produttivo, da incorporare a pieno titolo nel prezzo finale dei prodotti, ragionando anche in una logica di LCA.
Ritiene che un approccio di questo genere possa disincentivare l’attuale trend di delocalizzazione dei poli produttivi ad alta intensità energetica in paesi dove le misure di politica climatica sono meno severe?
Nel pregevole libro di Agime Gerbeti il punto di partenza è l’analisi della effettività dei risultati di riduzione delle emissioni conseguiti in Europa in base alla attuale contabilità.
In sostanza la domanda è: queste riduzioni sono reali o rappresentano solo uno “spostamento” delle emissioni dall’Europa verso altri Paesi?
Fa riflettere il fatto che nello stesso periodo in cui le emissioni europee si sono ridotte del 16% le emissioni globali sono aumentate di circa il 30% per un ammontare di circa 10 miliardi di t CO2/anno, pari a 15 volte la riduzione dell’Europa: questo incremento è del tutto imputabile alla crescita economica mondiale, ed in particolare dei Paesi emergenti, o una parte di tale incremento è imputabile a produzioni di beni e servizi destinate all’esportazione verso i Paesi sviluppati tra cui quelli europei?
In effetti l’Europa, nella attuale contabilità, considera solo le emissioni generate nel territorio europeo, trascurando quelle originate in territori diversi al solo fine di produrre beni e servizi esportati in Europa. Se fino agli anni ’90 esisteva una sostanziale coincidenza tra le emissioni nel territorio europeo e quelle connesse ai consumi di beni e servizi in Europa, la forte crescita del commercio mondiale di beni e servizi ha determinato un forte disaccoppiamento tra i due approcci di contabilità delle emissioni.
In alcuni Paesi il grande incremento delle esportazioni ha contribuito a determinare una forte crescita delle emissioni: ad esempio la Cina, dopo il 2001, anno del suo ingresso nel WTO, ha triplicato le sue emissioni, arrivando a superare i 10 miliardi di t/anno di CO2, valore superiore alla somma delle emissioni degli USA e dell’U.E. .
Le emissioni associate al commercio internazionale sono diventate quindi un elemento fondamentale nello spiegare le variazioni delle emissioni territoriali dei diversi Paesi, e di fatto è venuta meno la corrispondenza tra le emissioni generate in un territorio (production based) e quelle derivanti dai consumi di beni e servizi nello stesso territorio (consumption based).
Se una parte dell’imponente crescita delle emissioni di Paesi emergenti (come Cina, India, Brasile, Corea) non è attribuibile all’espansione demografica o ai maggiori consumi interni, bensì alle esportazioni di beni e servizi verso i Paesi sviluppati, ciò implica che una quota di tale crescita è da imputare ai Paesi importatori, tra cui l’Europa; la riduzione delle emissioni nel territorio europeo non garantisce quindi un’analoga riduzione effettiva delle emissioni globali.
Va notato che la sostituzione di produzioni europee con importazioni dai Paesi emergenti non solo rappresenta uno “spostamento” delle emissioni ma in alcuni casi ha indotto un sostanziale incremento delle emissioni mondiali a causa della minore efficienza energeticaefficienza energetica
Con questi termini si intendono i miglioramenti che si possono apportare alla tecnologia per produrre gli stessi beni e servizi utilizzando meno energia, con conseguente riduzione dell' impatto ambientale e dei costi associati. ed ambientale dei Paesi in cui si sono localizzate tali produzioni.
Quindi la proposta di considerare le emissioni climalteranti come un costo industriale da incorporare nel prezzo finale dei prodotti ha in primo luogo uno scopo ambientale, ovvero quello di rendere effettivi e non virtuali gli obiettivi europei di riduzione delle emissioni.
Naturalmente tale approccio avrebbe anche positivi effetti sul trend di localizzazione (e non solo di delocalizzazione) delle imprese, ma l’effetto più rilevante sarebbe quello di innescare una virtuosa competizione internazionale per realizzare beni e servizi con un minore contenuto di emissioni.
Infatti tale modello, se applicato in base a criteri trasparenti e non discriminatori sia alle produzioni europee che a quelle di importazione, avrebbe il pregio di risultare attrattivo, anche in assenza di accordi globali, sia per gli altri Paesi sviluppati, sia per le economie emergenti che potrebbero essere spinte, anche al solo fine di essere più competitivi nel mercato europeo, ad adottare analoghi meccanismi di tracciabilità delle emissioni indotte dai beni e servizi esportati.
Fiscalità ambientale europea ed asimmetria degli standard con il resto del mondo: in vista della Conferenza mondiale sul Clima di Parigi quali scenari dobbiamo attenderci?
Sebbene sia crescente la consapevolezza mondiale sulla gravità dei problemi dei cambiamenti climatici, temo che la burocrazia europea e mondiale deputata a gestire il problema non sia ancora in grado di elaborare proposte risolutive.Solo alcuni capi di Stato e di governo hanno maturato la conclusione che l’ambiente può essere salvato solo incorporando nei prezzi i costi del suo utilizzo; tra questi c’è certamente il Presidente Obama, che ha pubblicamente dichiarato che l’America dovrebbe “Imporre un prezzo alle emissioni. Non puoi continuare a rovesciare questa roba nell’atmosferaatmosfera
Involucro di gas e vapori che circonda la Terra, costituito prevalentemente da ossigeno e da azoto, che svolge un ruolo fondamentale per la vita delle specie, perché fa da schermo alle radiazioni ultraviolette provenienti dal Sole. Essa si estende per oltre 1000 km al di sopra della superficie terrestre ed è suddivisa in diversi strati: troposfera (fino a 15-20 chilometri), stratosfera (fino a 50-60 chilometri), ionosfera (fino a 800 chilometri) ed esosfera. e farne pagare il costo a tutti gli altri. Perciò mi piacerebbe fissare un prezzo alle emissioni di anidride carbonica.”
Ma un Presidente, alcuni studiosi (come ad es. il premio Nobel Paul Krugman) e una crescente parte di opinione pubblica non sono ancora sufficienti a contrastare i formidabili controinteressi che sussistono nell’ambito della questione climatica.
Quindi credo che l’accordo di Parigi (perché un “accordo” si raggiunge sempre) ancora una volta non sarà decisivo.
Il mio auspicio è che a Parigi si assuma almeno la decisione di avviare un serio lavoro di studio congiunto per nuovi modelli fiscali che impongano un prezzo alle emissioni: sarebbe un primo passo verso una soluzione vera.
Ing. Tullio Fanelli
Vicedirettore generale dell’ENEA
Intervista a cura di Orizzontenergia.it
Data: 17/06/2015