Era Fog! Aggrappato al cancello di Gabriella, Stefano premeva il campanello e il suono sgraziato si diffondeva nel silenzio mattutino, risvegliando un abbaiare di cani nei giardini e un volo di uccelli dall’albero accanto e dai fili del telefono.
Apri dannata donna, apri, apri, apri! – i pensieri di Stefano vorticavano, liberi e frenetici come una falena davanti alla luce, non riusciva nemmeno a comprendere le proprie sensazioni, un minuto di autentico tilt. O forse solo una manciata di secondi? Il tempo era pesante e umido, come uno straccio incollato addosso, e lui si sentiva zuppo di sudore, i nervi tesi e contratti dalla fretta.
Scagliò la cartelletta di là delle inferriate e prese a scavalcare il cancello.
Si udì il clac meccanico dell’apertura automatica, il ragazzo saltò giù, mentre Gabriella apriva la porta d’ingresso e si palesava con indosso la vestaglia. I capelli erano raccolti sotto una fascia di spugna rosa, l’oggetto più aberrante che potesse usare, e il viso era chiazzato dal fondotinta. Avvicinandosi a larghe falcate dopo aver recuperato la cartelletta, Stefano notò che brandiva una spugnetta da trucco: «Sté? Ma sei ammattito? Che ci fai qui a quest’ora? Vai fuori!», gli disse scontrosa.
Il ragazzo non interruppe la sua avanzata: «Devo vederla!»
«Chi?», domandò Gabriella seguendolo all’interno della casa.
Vago odore di caffè nell’aria e un tepore che gli arrossò le guance: «Lei! La ragazza che stava alla finestra poco fa!», disse secco, dirigendosi verso la sala.
Gabriella gli ostacolò il passo: «Torna da dove sei venuto! Che cosa vuoi da mia figlia?»
Il ragazzo si bloccò, fissando la donna che conosceva tanto bene: «Tua figlia? Fog è tua figlia? Ma perché non me l’hai mai presentata? Non c’è nemmeno una sua fotografia, in questa cazzo di casa!»
Gabriella lo spinse: «Tu sei completamente fuori di testa! Ma che stai dicendo? Guarda che chiamo la polizia se non ti dai una calmata! Caccio un urlo e poi vedi!», e Stefano desiderò picchiarla, per non avergli mai svelato quel particolare. Serrò le mascelle, ma ripensandoci si calmò: lei come poteva sapere? Non aveva mai visto i suoi lavori! Così si mise a scartabellare ed estrasse dalla cartella un album di bozzetti: «Guarda!», disse porgendoli alla donna.
Gabriella sfogliò il brogliaccio in un silenzio quasi innaturale, quando infine glielo restituì aveva uno sguardo diffidente e glaciale: «Quando hai conosciuto Eloise?», gli domandò con durezza.
Eloise. Ora Fog aveva un nome! Padre svizzero e nome francese, Stefano non ci sarebbe mai arrivato, ad indovinarlo. Avrebbe dovuto abituarcisi. Gabriella aggrottò le sopracciglia e lui si affrettò a spiegare: «È questo il punto, io non l’ho mai vista prima d’ora… Eloise! La disegno da sempre, la vedo dappertutto, la cerco da sempre ed era qui! Fog, che mi sta permettendo di esporre e vendere, che volevo farti conoscere attraverso le mie opere, Fog è sempre stata qui, a un passo da me! Io non riesco nemmeno a crederci!», la voce gli si spense e all’improvviso si sentì a pezzi.
Gabriella notò la sua commozione e annuì, mutando atteggiamento: «Questa storia me la devi spiegare con calma, ragazzo. Magari dopo un caffè caldo, eh? Riprendi fiato intanto.», Stefano abbassò a testa, vincendo alla stanchezza, scaricando la tensione, e la donna gli carezzò la schiena, rassicurandolo.
«Mamma? Che succede?», disse una voce sommessa alle loro spalle.
Gabriella e Stefano si voltarono verso la figura ferma nel vano della porta. Fog era lì, reale e vicina. La bocca morbida, il viso ovale e pallido, i capelli ad incorniciarle i lineamenti: era esattamente come lui l’aveva sempre disegnata! Era bella come una statua di porcellana, ferma sotto la luce, con gli occhi velati e dolci che fissavano la madre. A Stefano mancò la terra sotto i piedi, cercò un appiglio, si appoggiò al muro.
Gabriella si rivolse alla giovane: «Eloise, mia cara, torna pure di là, ci vorrà solo un momento.», ma Stefano mosse un passo, stendendo i fogli che teneva ancora in mano. Aveva urgenza di mostrare alla sua musa i disegni che la ritraevano, udire ancora la sua voce, sentire il suo profumo e guardarla da vicino.
La madre cercò di protestare ma lui la spinse di lato: «Vorrei che tu vedessi questi disegni!», disse d’un fiato alla ragazza, rifilandole in mano i fogli di carta ruvida.
Le dita diafane strinsero i bozzetti, il collo esile si piegò su di essi e il bel viso ritratto a matita fissò la sua copia in carne ed ossa, mentre Stefano tratteneva il respiro. Era il momento più importante della sua vita.
Gabriella era a un passo, Stefano la udì soffocare un debole gemito ma non se ne curò, perso com’era nei capelli folti di Eloise e nel suo profumo delicato. Passò un attimo.
La giovane donna fissò da vicino il primo ritratto, tenendolo stretto con entrambe le mani, poi fece un sospiro lievissimo e glielo restituì: «Sono certa che siano bellissimi, ma sono quasi del tutto cieca, distinguo poco i colori, vedo offuscato, come attraverso una nebbia.», si giustificò con quel viso d’angelo dagli occhi inespressivi e spenti.
Stremato, Stefano fece un passo indietro e, accasciandosi ai suoi piedi, scoppiò in singhiozzi.
Fog. La nebbia. Ecco tutto.
Testo e disegni copyright by Blanca Mackenzie, 2012-2013
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