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Creato il 19 febbraio 2015 da Malvino
Di
Michel Houellebecq ho letto solo Le
particelle elementari, appena uscì in Italia, e poi più nulla, perché quel
libro – uso un eufemismo – non mi piacque affatto. Trovai balorda la trama, irritante
la scrittura, e infine, a chiudere definitivamente la faccenda, non ricordo più
se in un risvolto o in quarta di copertina, c’era quella faccia da omino viscido
e dinoccolato che probabilmente m’avrebbe reso difficile anche la lettura di un
capolavoro, ammesso e non concesso che Le
particelle elementari, come pare, lo siano. Non sono neanche sicuro di
essere arrivato alla fine, di certo non ho più riaperto quel libro, e insomma
prima di Sottomissione, che ho
acquistato oggi, a Michel Houellebecq ho associato in tutti questi anni l’idea
di un tizio insopportabile, per giunta sopravvalutato dalla critica, a
rafforzare ulteriormente, se possibile, la mia ultraventennale idiosincrasia
per la letteratura contemporanea, salvando solo Philip Roth e Ian McEwan.
Non
ho ancora iniziato a leggere Sottomissione,
probabilmente lo metterò a stagionare per qualche mese, perché non c’è niente
di peggio, ritengo, che leggere un libro mentre ancora se ne parla, e troppo. Non escludo che anche questa «fiction
politica», com’è nella definizione dell’autore, non mi piacerà affatto, anzi,
ne ho come la certezza, però nella ragione che mi ha spinto ad acquistarlo c’è
ben poco dell’investimento che si fa per un genere voluttuario. C’è che ieri
sera, a Ballarò, Michel Houellebecq ha detto due o tre cose sulle quali sono
perfettamente d’accordo e che in buona sostanza dovrebbero scoraggiare una
lettura strumentalmente reazionaria della prognosi sociologica che affresca nel
suo romanzo, anche se ha tenuto a precisare che non gli importa molto se
dovesse accadere, come in realtà già accade, che la Francia del 2022 da lui
immaginata sia usata come spauracchio da chi nell’Isis cerca un pretesto per
favorire la deriva autoritaria, già da qualche tempo in atto in Europa, che
mira allo smantellamento dello stato di diritto.
Michel Houellebecq ha detto che
a minare la società francese non è il nichilismo, epiteto col quale sempre più
spesso si diffama la laicità dello stato, ma la mancanza di democrazia. Ha
detto che i partiti non rappresentano più nulla e che dunque il voto non ha
più senso, che il dibattito pubblico si è trasformato che da qualche tempo in
una rancorosa contesa che oppone i privilegi delle élites alla rabbia e alla frustrazione
della gente comune. E ha detto che per quanto attiene all’Isis il problema non
è il Corano, che al pari della Bibbia, assai poco letta dai cristiani, è assai
poco letto dai musulmani, e ancor meno dai jihadisti, che ha degnato d’un solo aggettivo:
stupidi. Il problema non è il Corano – ha detto – ma il ruolo degli imam,
perché tutti i musulmani che hanno compiuto violenze sono di regola passati per
le mani di guru spirituali che hanno loro indicato la via. E ha indicato nel
passato coloniale di questo o di quel paese l’elemento che lo rende più o meno
odioso all’Isis, anche quando quel passato è ormai alle spalle, e con ciò mi
pare abbia centrato in pieno il movente psicologico che muove il sogno del
califfato: quello del riscatto da una storia vissuta come umiliazione. E tutto
questo l’ha detto con una faccia che, tre lustri dopo, era assai diversa: un
mix di Céline e di Iggy Pop, con una zazzera rada e spiovente, un po’ alla
Ceronetti, una specie di clochard tra il misantropo e lo strafottente. Simpatico.
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