Lui vorrebbe tanto restare, son tutti gli altri che non lo vogliono più, e così sul volgere di aprile, correndo l’anno 1962, Giovanni Gronchi si vede costretto a fare i bagagli.
Prende il via la quarta elezione quirinalizia. Son finiti i tempi dei galantuomini. Son dipartiti De Gasperi, ed anche De Nicola. E nell’ottobre del 1961 anche quel gran signore di Luigi Einaudi.
Se qualche sentore s’era avuto con Gronchi a partire da questa elezione possiamo cominciare ad ammirare i prodromi di quel che sarà. E non sarà, quasi mai, un bello spettacolo.
Le candidature son due. Una sostenuta dalla DC, nella persona di Antonio Segni. L’altra sostenuta dai socialcomunisti e ovviamente dai socialdemocratici, nella persona di Giuseppe Saragat. C’è solo un particolare, non del tutto insignificante. Il 2 marzo del 1962 è nato (podalico) il quarto governo Fanfani, sostenuto da DC, PSDI, PRI e con l’appoggio esterno del PSI.
Capirete che si tratta di un pasticciaccio brutto. Il segretario DC, Aldo Moro, non pago delle convergenze parallele di due anni prima, si esibisce in un’altra ardimentosa uscita, la candidatura non contrapposta ma parallela. Testualmente dirà: ‘La DC sostiene la candidatura di Antonio Segni non in contrapposizione ma in parallelo con quella di Giuseppe Saragat’. Che Moro, per dirla tutta, se non l’avessero elevato a santino (e statista) per i noti fatti, era un altro che dava le sue belle soddisfazioni.
La realtà è ben più impervia. Quella melma che va sotto il nome di corrente dorotea, un raffinato consesso che negli anni diede asilo a nobili figure quali Rumor, Bisaglia, Gava, Scotti, Colombo, Piccoli, al congresso conclusosi in gennaio aveva assentito alla svolta a sinistra predicata da Forlani. Ma non gratuitamente. Aveva infatti preteso in cambio la candidatura alla presidenza del proprio leader indiscusso, Antonio Segni.
Quindi altro che parallela ma non contrapposta. Segni alla presidenza era questione irrinunciabile.
Settantunenne, sassarese, con quarti di nobiltà ma un sincero afflato popolare entrò giovanissimo nel PPI di Don Sturzo e si segnalò per una ferma opposizione al fascismo. Docente di diritto, padre costituente, da ministro dell’Agricoltura si distinse per una riforma agraria che fu storica. E va segnalato che quella stessa riforma lese, e pesantemente, gli interessi della famiglia della moglie, Laura Carta, proveniente da una ricchissima stirpe di grandi proprietari terrieri.
Un conservatore, ma anche, alla sua maniera un riformista. Due volte presidente del Consiglio sarebbe il candidato ideale comunque. Ma in casa DC, sarà per la vena profondamente cattolica, Giuda imperversa.
Per sette scrutini Segni è in testa, ma senza mai raggiungere i voti necessari all’elezione, sebbene siano confluiti sul suo nome anche liberali, monarchici e missini.
Per uscire dallo stallo, Saragat propone di congelare la propria candidatura e quella di Segni per una di compromesso, il Presidente della Camera Giovanni Leone. I dorotei mettono in atto un pandemonio, minacciano di far cadere il governo Fanfani e alla fine i voti, per Segni, saltano fuori.
All’ottava votazione, Segni manca il quorum per appena 4 voti. Si capisce che ormai è fatta. I commessi redistribuiscono le schede a tempo di record. Non fanno neppure in tempo a distribuirle tutte che si comincia subito a votare. Un deputato DC ancora sprovvisto della sua, ma chiamato in ordine alfabetico, si fa passare quella del vicino di scranno. Già compilata col nome di Segni. Se ne avvede Pertini, che fa uscire tutti i socialisti dall’aula gridando al broglio, mentre si strilla ‘camorra, camorra’. Una gazzara montata, ammettiamolo, su una cosa del tutto innocente, per una volta.
Ma in ragione della sospensione di due ore, Togliatti si gioca l’ultima carta, offrendo a Leone i voti dei socialcomunisti e assicurandogli che Moro gli porterebbe in dote quelli della sinistra DC. Leone rifiuta recisamente e qualche minuto dopo convoca la votazione 9-bis, che incoronerà Segni
Per la prima volta la neonata televisione trasmette l’elezione del presidente, e gli Italiani possono ascoltare lo spoglio dalla viva voce del Presidente Leone, che con inconfondibilie cadenza napoletana alterna ‘Seggggni’ a ‘Saragatte’. Volete mettere?
Il discorso di insediamento è l’opposto di quello gronchiano, e pare di intendere che il neo presidente voglia mettere al centro il Parlamento e non la sua persona.
Anche la moglie, Donna Laura, rifuggirà per quanto possibile le occasioni pubbliche mostrandosi quale personaggio di rara discrezione.
Sobrio e rigoroso, con se stesso prima ancora che con gli altri, Segni sarà un uomo solo, in quel ruolo. Intendiamoci, il potere rende soli, per antonomasia. Ma Segni, anche per carattere (riservato, ombroso, chiuso, diffidente) lo fu più di altri.
E questa solitudine, giocò, forse, un ruolo nei rapporti tra lui ed il generale De Lorenzo. Interessante figura quella di De Lorenzo. Capo dei servizi segreti, poi comandante dei Carabinieri, poi ancora capo di Stato Maggiore dell’esercito, di fronte alle crescenti tensioni di piazza, all’instabilità politica, alla difficoltà di mantenere in piedi dei governi di centro-sinistra, elabora un piano, il Piano Solo, che, se non è un golpe, gli va pericolosamente vicino (ma in realtà è un golpe vero, sullo stile di quello dei colonnelli in Grecia)
L’idea è quella di militari provvisoriamente al potere, deportazione di 731 politici e sindacalisti di sinistra (gli “enucleandi”) nella base Nato sarda di Capo Marrargiu, occupazione della Rai e dei giornali di sinistra. Quando lo presenta al Presidente, questi ne rimane profondamente turbato (ma uno normale, lo avrebbe fatto arrestare, senza meno). Storici e giornalisti sosterranno che Segni non avesse intenzioni golpiste, ma cercasse di imprimere con la paura una svolta all’impasse politica. Sarà. Resta il fatto che a giocare col fuoco, il rischio di scottarsi è notevole.
Non se ne farà nulla, ma da quel momento, l’uomo Segni non sarà più lo stesso. Le immagini ce lo mostrano commosso davanti a parate di carabinieri. Sintomo che qualcosa non andava. Fosse depresso o solo spaventato e turbato, è un segreto, uno dei molti, che s’è portato dietro. Perchè era un uomo solo, come si diceva. E non risultano, caso raro in Italia, confidenti.
Ma certe faccende non covano a lungo sotto la cenere. E la versione del Piano Solo che giunge alle orecchie di Nenni risulta allarmantissima. Se fosse stata esagerata o se si trattasse semplicemente del Piano originale, non si saprà mai.
Il 7 agosto, ha luogo una tempestosa riunione. I convenuti sono Segni, Moro e Saragat. Testimoni riferiranno di aver sentito i tre urlare, da dietro la porta chiusa. E qualcuno dirà che Saragat minacciò Segni di trascinarlo davanti all’Alta Corte di Giustizia. Resta il fatto che quando si apriranno le porte i commessi vedranno un Segni esanime tra le braccia di Moro e Saragat. Una trombosi lo immobilizzerà, nel corpo, lasciandolo in uno stato di parziale incoscienza sino alla morte, avvenuta nel 1972.
Si sigla un dichiarazione di inabilità temporanea, per permettere a Merzagora, Presidente del Senato, di assumere l’interim, e si cerca di dare una sistemata alle questioni politiche più calde, prima di far firmare allo stesso Segni (o a chi per lui, come si sussurra), le dimissioni. E’ il 6 dicembre 1964 e si comincia a pianificare la nuova elezione del Capo dello Stato.
Segni è passato come una meteora, ha conosciuto storie oscure, e le ha portate con sé. Lasciandoci, come d’uso, in un mare di congetture.
Pillole da un settennato incompiuto
Il 5 agosto 1962 a Brentwood, Los Angeles, viene trovata morta, stroncata da overdose, Marilyn Monroe. Il mito di un’epoca. La quintessenza della bionda. Ma anche i Kennedy, la Mafia, Joe Di Maggio ed Arthur Miller. 36 anni vissuti senza risparmiarsi.
Il 28 agosto 1963 davanti al Lincoln Memorial di Washington, un pastore protestante di colore, Martin Luther King pronuncerà la frase ‘I have a dream’. Cinque anni più tardi, uccideranno lui, ma non il suo sogno.
Il 22 novembre 1963, a Dallas, Texas, Lee Harvey Oswald (o chi per lui) uccide John Fitzgerald Kennedy. E chiude per sempre un’epoca che fu di speranze (anche se talora mal riposte).
Il 21 agosto 1964, a Yalta, in Unione Sovietica, muore Palmiro Togliatti. Ha segnato, profondamente la storia politica italiana. E fu, probabilmente, una delle figure politiche più complesse e sfaccettate di questo Paese.